sabato 5 ottobre 2024

VISITA DEL TEATRO COMUNALE DI CARPI. UN’ESPERIENZA UNICA GRAZIE A SARA E RICCARDO CONOSCITORI IN OGNI DETTAGLIO DELL'EDIFICIO E DEL SUO FUNZIONAMENTO. DI CUI CI HANNO SVELATO OGNI SEGRETO DI QUELLA COMPLICATA MACCHINA CHE È UN TEATRO LIRICO

Conoscere un teatro da  cima a fondo. Il teatro comunale a Carpi, Modena, nel corso della Festa del Racconto 2024. Una visita guidata dalla bravissima e generosa Sara, attrice oltre che attiva nello staff da un quarto di secolo, ma anche da Riccardo, giovane tecnico di quella complicata macchina che è un teatro lirico, ci ha aperto i segreti di un edificio realizzato da Claudio Rossi ed inaugurato nel 1861. Come spesso i teatri si presenta composto e austero all’esterno per via dello stile neoclassico quasi a voler nascondere le proprie bellezze. L’interno è poi una collana di sorprese. E grazie a Sara e Riccardo nessuna ci è stata negata.

Non si sono accontentati, i due, di guidarci fino nella platea dopo essere passati per il foyer e il ridotto. La contemplazione del soffitto affrescato come tutte le decorazioni dei loggioni da Giuseppe Ugolini già da sola meriterebbe la visita. Riproduce le quattro arti legate al teatro, commedia, tragedia, danza e musica, nelle fattezze di bellissime fanciulle. 

A noi però è stato anche consentito di salire oltre i loggioni e la piccionaia accedendo al piano che sta sopra il soffitto: un vasto abbaino con ancora le lunghissime e originarie travi di legno che lo sorreggono, e poi ancora più su. All’ultimo piano normalmente off limits ad eccezione degli addetti ai lavori ci sta il graticcio con i macchinari e le funi per calare le scenografie, gli schermi e quant’altro indispensabile allo svolgimento dello spettacolo. E pure l’orologio (vedi foto).

Di stupefacente bellezza infine il sipario dedicato al mito di Orfeo. Fatto calare apposta per noi!

Grazie Sara e Riccardo!

domenica 29 settembre 2024

IN IL GIARDINO DI ALI, SECONDO ROMANZO DI GIUSEPPE CONTI CALABRESE, UN SUFI EGIZIANO APPRODA A VILLA HECH, IMMAGINARIA RESIDENZA NOBILE SUL LAGO DI COMO, LA CUI PROPRIETARIA É CECILIA RIVA, ULTIMA RAMPOLLA DI UNA DINASTIA DI INDUSTRIALI DELLA SETA. NASCE UNA STORIA D'AMORE IL CUI PRIMO FRUTTO É LA REALIZZAZIONE DI UN GIARDINO ISLAMICO, LUOGO MISTICO DI UN AVVICINAMENTO A DIO CHE ALI MANSOUR, ARCHITETTO E APPASSIONATO IDEALISTA, PERSEGUE IN OGNI ASPETTO DELLA VITA. ANCHE NELL'ANELITO AL DIALOGO INTER-RELIGIOSO COL CRISTIANESIMO E, NELLA TEMPERIE DELLA PRIMAVERA ARABA DEL 2011, AD UN DESTINO DIVERSO PER IL SUO PAESE DALL' AUTORITARISMO E DALL'INGIUSTIZIA

Parliamo di religione musulmana? Di islam? Tutto sommato la cronaca invoglia poco. Ci costringe invece ad allargare il focus sul Allahu Akbar il secondo romanzo di Giuseppe Conti Calabrese, Il giardino di Ali, Castelvecchi, 2024. Dopo il primo ambientato a Milano, il narratore milanese ci conduce infatti all'inizio sulle rive del lago di Como in faccia a Bellagio e in una immaginaria villa Hech, gioiello neorinascimentale e nido lussuoso di Cecilia, ultima rampolla di una dinastia di industriali della seta, e di Riccardo, fascinoso buyer e marito. Da qui però prende il volo nella geografia e nel pensiero. Perché a villa Hech, per traversie varie, ma in fondo proprio perché Allah è grande e in lui sta tutto il bene e il male del mondo, approda Ali Mansour, un sufi. Dall’Egitto.

Non è un migrante. Semmai un profugo. Ali è di ottima famiglia e studi solidi di architettura al Cairo e a Firenze. Mai descritto eppure certamente infuso della bellezza del suo stile e delle sue parole. La sua biografia nasconde un segreto di violenza jihadista, ma un po' perché manzonianamente chiamato un po', anzi molto, grazie alla guida del mentore zio Adel diventa tutto Corano, pace e saggezza. Il suo trasferimento in Italia rientra appunto in questo nuovo percorso. Nel quale però Ali resta a modo suo eversivo. Si sa che i mistici vanno a genio finché pregano e basta. Molto meno se esprimono una qualche non ortodossa visione. Una volta li si bruciava in pubblica piazza.  Ebbene, il sufi Ali Mansour resta uno scompaginatore di carte. Del suo passaggio lascia il segno.

Perché a questo devoto assoluto nell’Unico interessa zero la sanguinosa diatriba sciiti- sunniti. Gli piace il dialogo inter-religioso a 360°.  É un personaggio al tempo stesso semplice e complesso, Ali. Semplice perché in lui qualsiasi lettore potrà riconoscersi come nel protagonista di un romanzo rosa perfino con un po’ di invidia. Complesso perché incarna la fede nel Dio imperscrutabile di Lutero e Maometto, ma anche provvidenziale di frate Cristoforo, militante alla San Paolo, francescana del Cantico delle creature e cristiana nel senso del sacrifico per tutti noi. E dialoga su questi argomenti come in un trattato rinascimentale con Paolo Dall’Oglio (quello vero, quello sparito nel 2013 nel gorgo della jihad e dei crimini di Assad) e Don Antonio, ministri cristiani altrettanto idealisti e altrettanto militanti del buono e del bello in nome di Dio: il primo crociato e agnello sacrificale della pace e del dialogo, il secondo interprete del dubbio, che della fede profonda e contemporanea è sostanza.

E poi Ali crede nelle opere, ovviamente quelle belle. Che sono divine per antonomasia e bisogna farle. Pertanto come un novello Leon Battista Alberti propone alla mecenate Cecilia una città ideale nella proprietà di villa Hech. Un giardino, un giardino islamico, il jannah. Perché Ali il paradiso lo vuole in terra. Perché, dice a Cecilia per buona ventura rimasta vedova di un marito manesco e già innamorata cotta di lui, e chi non lo sarebbe, “Dio è bello e ama la bellezza”. E quel giardino sarà “il sublime e il perfetto compimento del mondo terrestre, dove uomini e ogni altra creatura vivente rivelano finalmente la loro origine divina”.

Non per nulla fungerà poi da crogiuolo di visioni, utopie, speranze e, giù per li rami, affetto reciproco, abbracci, amicizia, amore, ascolto, interscambio di idee, sesso. In un contesto di osmosi delle fedi che non è sincretismo: è condiviso anelito all’assoluto.

Tanto assoluto che Ali affida a questo credo, un credo globale perché privo di steccati e inutili primazie, un credo che un utopista di razza non può oggi non auspicare, perfino il compito di nutrire l'attivismo politico: non verso il fanatismo e la violenza, naturalmente, ma sospinto da quel sacrosanto anelito alla libertà e alla democrazia che i popoli della primavera araba, per non dire del Donna Vita Libertà iraniano, hanno massimamente dimostrato di desiderare senza successo e tanto dolore. 

Perché, certo, la terra non è un paradiso e il romanzo di Calabrese è religione, filosofia, formazione, sentimento, ma anche, tragicamente, storia. La narrazione attraversa un buon quarto di secolo inciampando in Mubarak e nella sua asfissiante autocrazia, nell’11 settembre, nell’autodafé dell’ambulante Mohamed Bouazizi, nell'illusione della primavera araba. E la storia, purtroppo e per fortuna, siamo noi. Non per nulla, tornando alla cronaca, per i sufi d'ogni contrada sta tirando un'aria pessima.

lunedì 23 settembre 2024

LE MALEFATTE, LE ANGHERIE E LA PERFIDIA PERPETRATE AI DANNI DELLA POPOLAZIONE PALESTINESE DELLA CISGIORDANIA DA PARTE DEI COLONI ISRAELIANI E SOSTANZIALMENTE DAL GOVERNO NETANYAHU SONO STATE ILLUSTRATE DOMENICA 22 SETTEMBRE AL CASTELLO DI SORRIVOLI DAL MILITANTE ISRAELIANO GUY BUTAVIA CHE ALL'INTERNO DELL'OPERAZIONE COLOMBA CERCA DI PROTEGGERE PACIFICAMENTE LE VITTIME. I COLONI ISRAELIANI, CON LA COPERTURA DEL GOVERNO, PUNTANO INFATTI ALLA PULIZIA ETNICA. L'INIZIATIVA É DI MEDITERRANEA SAVING HUMANS DI CESENA.

Domenica 22 settembre al Castello di Sorrivoli Guy Butavia, israeliano attivista all’interno dell'impegno militante denominato Operazione Colomba che vorrebbe contrastare pacificamente la pulizia etnica ai danni dei palestinesi della Cisgiordania, ha illustrato con filmati il campionario di angherie e crudeltà utilizzate per questo fine da parte dei coloni israeliani, talvolta militarizzati, e dell'esercito. L'iniziativa è stata promossa dal gruppo cesenate di Mediterranea saving humans.

La Cisgiordania, che i ministri ultra-ortodossi della compagine di Netanyahu chiamano biblicamente Giudea e Samaria, già da tempo sta subendo le malefatte di un'urbanistica, chiamiamolo cosi, che punta ad interrompere la continuità e l’osmosi tra gli insediamenti palestinesi. Ebbene, dopo il 7 ottobre questa frammentazione si è trasformata in chiusure vere e proprie che impediscono agli abitanti dei villaggi di muoversi liberamente per lavoro e anche studio. 

La proprietà privata in Cisgiordania non è inviolabile e ci si può costruire per ebreizzare il territorio. E se protesti e ti difendi dai coloni che ti minacciano con bastoni e armi da fuoco, i soldati, se non stanno solo a guardare o si impegnano soprattutto ad allontanare chi filma, attribuiscono sistematicamente la responsabilità delle colluttazioni e dei diverbi ai palestinesi. Con anche arresti. E pure morti.

Le capre e le piante da frutto vengono avvelenate, le case rase al fuoco dal buldozer, la raccolta delle olive degli uliveti è impedita. E, se ce la fai lo stesso a riempirne un sacco e ti intercettano, il carico viene sequestrato con l’asino. Le minacce, gli attacchi e la distruzione di macchinari agricoli non è frenata da alcuna autorità. Per esempio gli impianti per la fornitura di acqua, quando ce l’hanno, vengono manomessi. 

I coloni, dicevamo, aggrediscono coi bastoni i palestinesi, ma anche i militanti gandhiani che li difendono o filmano rischiano. Anche la vita. E se accade che in un rigurgito di separazione dei poteri la giustizia sentenzi il diritto degli abitanti a tornare alla terra che è stata loro arbitrariamente tolta, non però gli è riconosciuto quello di ricostruire gli edifici nel frattempo abbattuti. 

E che fai a quel punto? Te ne vai? In qualche caso si. Questo appunto si vuole, questo ormai l’establishment al potere sostiene apertamente. 

Quel che fanno i governi di Israele ai danni dei palestinesi della Cisgiordania ricorda molto quanto i fascisti fecero nel '20 e '21 in particolare in Emilia e Romagna per cancellare ogni traccia di movimento socialista contadino. Un mix di violenza, minaccia, prevaricazione condita con il sostegno dell'esercito e la rara, insufficiente e spesso contraddittoria tutela da parte della giustizia mentre il mondo guarda impotente. 

In un paese, Israele, che giustamente può essere definito democratico, ma solo perché prevede libere elezioni. Per il resto, oltre che attraversato da istanze autoritarie e repressive nei confronti del suo stesso popolo, sta procedendo in un lavoro lento e mai interrotto di apartheid e oppressione nei confronti della minoranza che già viveva in quelle terre prima del 1947, prima guerra arabo-israeliana, e prima che la nobiltà del sionismo s’inquinasse di bullismo geopolitico e razzismo. E prima che la politica dei due popoli e due stati diventasse carta straccia.

E fosse sostituita da una politica no non genocida. Il termine usato anche da Guy è fuorviante e presta il fianco a reazioni di sdegno in quanto riconducibile ai forni e ai massacri al tempo stesso sommari e selettivi di Srebrenica. Quella illustrata da Guy è invece a tutto tondo una pulizia etnica (raccontata anche dalle inchieste di Francesca Mannocchi su La Stampa). Che parte da lontano e dopo il  pogrom del 7 ottobre - ha puntualizzato Guy- "ha solo accelerato”. Pure incrudelendosi. 




lunedì 16 settembre 2024

UN SI FESTIVAL 2024 A SAVIGNANO SUL RUBICONE IN LINEA CON LA SUA TRENTENNALE STORIA. UNA RASSEGNA CHE RESTITUISCE INTERROGATIVI PIÙ CHE CELEBRAZIONI. E CI PORTA LA DOVE IL MALE DI VIVERE SI ESPRIME NELLE FORME CONTEMPORANEE VICINE E LONTANE

Quest’anno, trentatreesima edizione, il Si Festival di Savignano al Rubicone ha ritrovato buona parte della sua identità e vocazione: riassegnando alla fotografica il suo ruolo primario oltre che diffuso nella cittadina, restituendo a piazza Borghesi l’epicentro della manifestazione ed anche evitando improbabili commistioni con altri generi, tipo musica. Il rito, nella prima serata, quella di sabato 14 settembre (il festival durerà fino al 29) della fotografa (o insomma quello che era) che affida al fuoco una ad una le foto dell’archivio fotografico del padre ha espresso un momento di particolare significatività di una rassegna che non rincorre affatto certezze, soste, sicurezze.


Tolti gli spazi dedicati ad inediti e altro di Marco Pesaresi, il cui archivio è stato donato dalla famiglia a Savignano, e a Silvia Camporesi, con una mostra antologia, alcune foto dell’alluvione del 2023 comprese, all’interno della chiesa del suffragio, nei vari spazi minimalisti soliti, dalla scuola Giulio Cesare ad complesso del consorzio di bonifica sulla via Emilia, quest’anno, verrebbe da dire più che mai, e in ogni caso come recita la sua storia, il Si Festival ha proposto scatti riconducibili a perdita, marginalità ed emarginazione, underground, divisioni, ricerca, fragilità, notte, solitudine. Il tutto, secondo tradizione, quasi confuso con l’ordinario e il trasandato dei contenitori. Per nulla agevoli neppure nell’accesso e nell’usufruizione.


Non potrebbe essere diversamente, verrebbe da dire. Tanto da presumere inimmaginabile per le foto esposte una location diversa da Savignano: l’ambientazione sembra costituire un continuum delle foto. Guardando fuori dalle finestre del Consorzio di Bonifica potresti facilmente catturare stralci di vita e di paesaggio in perfetta analogia. 


Mentre in piazza andava il rito in versione fotografica dell’uccisione del padre, nella sala Allende, coi genitori presenti, è stata celebrata la figura di Andy Rocchelli, fotoreporter ucciso nel Donbass dagli ucraini nel 2014. Al Si Festival c’era la serie delle sue foto a donne russe con cui il suo obbiettivo ha dialogato per promuoverle nel mondo e riscattare in qualche modo l’insoddosfazione di una vita. Non era un fotografo di guerra, Rocchelli, e l’inchiesta sulla sua  deliberata uccisione sta incontrando ostacoli e reticenze di ogni genere. Un caso simile al Regeni, ma praticamente ignoto.



lunedì 26 agosto 2024

AL FERRARA BUSKERS FESTIVAL LA STORIA DI UNA MUSICISTA INNAMORATA DELLA STRADA COME LUOGO DI CONOSCENZA E CRESCITA. UN LIBRO RACCONTA IL PERCORSO ESISTENZIALE CHE HA PORTATO LA SASSOFONISTA FLOR GOLDSTEIN A VEDERE NEL BUSKING LA PROPRIA VOCAZIONE


Busker si diventa e lo racconta una artista di strada del Ferrara Buskers Festival nel suo libro intitolato Dalla strada, tradotto dallo spagnolo da Angelo Giordano e presentato al Ferrara dall’autrice stessa. Che è sassofonista e nei giorni dal 21 al 25 agosto nel crocevia dei corsi Ercole d’Este e Biagio Rossetti, non lontano dal castello estense, si è esibita all’interno del sestetto ispanico degli Arajuezzjazzband. Il messaggio del libro è che ad esibirti sulla strada col tuo strumento e la tua voce può condurti la vita stessa. E nient’affatto come rimedio. Bensì come vittoria e conquista. Per Flor il busking è stato l’arrivo di un percorso di uscita dal dolore e di ricerca di sé.

Intermettendo la narrazione con brani del sassofono, Flor lo ha raccontato questo percorso, che partendo da un “terreno vuoto”, da “rovine”, da un “niente”,  l’ha condotta a capire  “che la mia ricchezza era il mondo, che era lì sulla strada”. Dove Flor ha cominciato a suonare superando “paura e timidezza”. Per poco. Una mezz’ora al giorno. Per scoprire però rapidamente “che quel poco tempo era diventato il migliore della mia giornata”. E così è scoccato quello che Flor ripetutamente chiama “innamoramento” (che, poi, è lo stato spirituale che l’ha mossa a raccontare la sua storia: prima sui social, poi in un paio di libri, quest’ultimo in particolare). Di qui la metamorfosi in busker.

“Mi sono innamorata -racconta- quando ho scoperto che la strada è il luogo dove si riconciliano cose diverse. Sulla strada c’è precarietà, estraneità… e poi c’è il busker che sta ai margini” e, mentre suona e canta, guarda. “La strada è un magnifico osservatorio per guardare i bipedi”, un osservatorio molto particolare. E per questo insegna a vivere. Se la strada è il cosmo dell’indifferenza, ebbene “il busker impara a gestirla”, questa indifferenza. Perché, suonando per strada, “io penso sempre di lasciare qualcosa che forse un giorno germoglierà”, qualcosa magari risvegliato da qualcos’altro. Non importa quando. Intanto “io grazie alla strada vedo, scrivo e poi torno a suonare con più consapevolezza…”

Ebbene, questa convinzione, anzi questa consapevolezza, di relazionarsi in qualche modo con coloro che passano, magari senza attribuire valore alla tua performance, rappresenta la magia del busking. E pure, dice Flor, la conquista maggiore nel suo percorso di vita. Non per nulla come ultimo brano ha suonato What a wonderful world di Louis Armstrong. Dedicato al padre, ottantaduenne e fotografo. Che della sua rinascita, anche di scrittrice, è stato il suo booster.

sabato 24 agosto 2024

UN FERRARA BUSKERS FESTIVAL 2024 A PAGAMENTO (11 EURO) E DISLOCATO SUONA COME UNA CONTRADDIZIONE. È ANCORA BUSKER? C’È CHI DICE DI NO

Giacomo, 25 anni, busker ferrarese a tempo pieno, suona Bach col violino dentro la navata dell’ingresso del Castello Estense in questa mattina del terzo giorno del Ferrara Buskers Festival e piace a chi entra ed esce dal cortile del maniero. Tanto che la custodia  dello strumento è bella piena di monetine e pure bigliettoni. Ebbene, Giacomo mi risponde che in Corso Ercole d’Este e in Corso Biagio Rossetti, il cardo e il decumano della cittadella nella quale gli organizzatori hanno collocato la trentasettesima edizione della celeberrima rassegna dei musicisti di strada, non ci andrebbe mai. “Non è busker quella roba lì” sentenzia evidentemente molto grato per essere stato interpellato sull’argomento e potersi sfogare un po’. 

Il cambiamento in effetti non può non far discutere. Busking è musica di strada, è improvvisazione, libertà, socialità, e inscatolare l’arte in un crocevia, per quanto di impareggiabile fascino, con   biglietto d’ingresso (11 euro), controllo di borse e zaini con divieto di introdurre liquidi d’ogni genere, quelli personali in alluminio compresi, non può non apparire prima di tutto singolare. Se non addirittura contraddittorio.

Giacomo, 25, busker ferrarese

Un po’ come la street art in un museo. Anzi, peggio: dopo che hai pagato il biglietto o il pass (40 euro) e dopo aver consumato nell’area food del parco Massari, nel quale la manifestazione dilaga con performance musicali, cartomanti e fish & chips, che voglia hai di darne anche ai musicanti? Anche perché a questo punto non sembrano più busker, ma performer. Niente di strano che girino cacciatori di teste. 

Fino a dieci anni fa, continua Giacomo, il Busker Festival era un’altra cosa: un evento all’insegna della libertà, dell’osmosi col commercio, i cittadini, una festa. Poi di limitazione in restrizione si è approdati via via all’edizione 2024, la prima a pagamento. “I costi organizzativi sono diventati insostenibili” scrive sul catalogo dell’evento per giustificare la scelta Rebecca Bottoni, presidente dell’Associazione Ferrara Buskers Festival, moglie del suo inventore Stefano Bottoni. 

Non bastano purtroppo i contributi regionali (41500 euro) in aggiunta a quelli sicuramente superiori del Comune e di altri sponsor per coprire i 330000 mila necessari. La non gratuita tuttavia ha richiesto anche l’allontanamento dall’area del castello, dove fino all’anno scorso la manifestazione si svolgeva. Le due vie prescelte sono poco più in là, sono monumentali e magnificamente ferraresi, ma stonano con l’evento. 

Ci voleva evidentemente una location sigillabile per far pagare la gabella. Seguendo questa logica però la trentottesima edizione dove andrà? Al polo fieristico?

lunedì 12 agosto 2024

LA VITA ACCANTO DI MARCO TULLIO GIORDANA, MELODRAMMA FAMILIARE, TRAVAGLIO DEL NON DETTO E DEL DISVELAMENTO AL FESTIVAL DI LOCARNO IN PRIMA ASSOLUTA OGGI 12 AGOSTO 2024. NELLE SALE (ANCHE IN ROMAGNA) IL 22 AGOSTO.

MARCO TULLIO GIORDANA

Una macchia per Marco Tullio Giordana non è per sempre. Questo il messaggio che sembrerebbe nutrire il suo ultimo film La vita accanto, tratto dall'omonimo romanzo, presentato oggi 12 agosto in anteprima al Festival di Locarno. Uscirà nelle sale il 22 c.m. (es. Astoria  di Forlì). Ma è quel "non per sempre" che lascia perplessi.

Rebecca rivela questa macchia rossastra sul viso (vistoso angioma) appena uscita dal ventre di Maria, la madre (Valentina  Bellè). Che non la prende bene, ma, scopriremo, non tanto o comunque non solo per l'imperfezione. C'è dell'altro in quel benestante nucleo composto da Rebecca, Maria, Osvaldo (padre e marito) e... Erminia, sorella di Osvaldo.

Il segreto emergerà in tutta l'evidenza, sia pure con le modalità a Giordana più gradite, la collaborazione degli estinti, via via che il dramma approderà al finale rivelatore e Rebecca crescerà in lotta, più ancora che contro il congenito inestetismo, con il non detto e le reticenze del padre. 

A soccorrerala interverranno preziose informazioni dalla madre in parte fornitele, come si diceva, post mortem. In parre lasciatele, per così dire, in eredità. Tutte quante l'aiuteranno a squarciare la nebbia.

Uno squarcio che però non convince. Giordana ha definito egli stesso il suo film melodramma forse per il ruolo importante della musica nella crescita della protagonista. È un dramma con nel finale un eccesso di dolcificante.


lunedì 18 marzo 2024

PERCHÉ LA PRESENZA NEI RANGHI AMMINISTRATIVI E DELLE ISTITUZIONI CIVILI ASSOCIATE ALL'AMBIENTE E ALLA SOSTENIBILITÁ DI AMBIENTALISTI CON FUNZIONI TECNICHE NON HA IMPEDITO ALL'EMILIA-ROMAGNA DI FIGURARE IN TESTA NELLA GRADUATORIA DEL CONSUMO DEL SUOLO? RISPOSTA: OGGI IL PRESIDENTE DELL'EMILIA-ROMAGNA BLOCCA, A SEGUITO DEI DISASTRI CAUSATI DALL'ALLUVIONE DEL MAGGIO 2023, NUOVE E DA TEMPO CONTESTATE URBANIZZAZIONI E ANNUNCIA LA NECESSITÁ DI CAMBIARE ROTTA NELLE PREVISIONI EDIFICATORIE, MA IERI ERA PROPRIO LA POLITICA CHE MINAVA DIVIETI E LIMITI EDIFICATORI IN SPAZI SCONSIGLIATI E IL TEORICO FRENO DELLA LEGGE URBANISTICA REGIONALE SUL CONSUMO DEL SUOLO DEPOTENZIANDO L'AZIONE DEL CONSORZIO DI BONIFICA E SOPRATTUTTO DELL'AUTORITÁ DI BACINO E DIMENTICANDO IL RUOLO CENTRALE DELLA COLLINA E DELLA MONTAGNA, LE CUI FERITE PERALTRO RESTANO ANCORA OVUNQUE VISIBILI, NELLA GESTIONE DELL'ASSETTO IDROGEOLOGICO REGIONALE


Cesena, area ex-zuccherificio presso il Savio

Tanta costruttiva presenza ambientalista negli organi politici, amministrativi e della società civile dell'Emilia Romagna non ha impedito alla regione, all'indomani dell'alluvione del maggio 2023, di essere imputata, pur riconoscendo l’attenuante dell’eccezionalità dell’evento meteorologico, per il consumo di suolo, oltre che per l’insufficiente cura dei suoi crinali a ridosso della pianura e per avere costruito o intender costruire in aree inadatte. Aree magari allagate durante il disastro. In particolare, istituzioni regionali quali il Consorzio di bonifica e l'Autorità di bacino sono accusate di aver deragliato rispetto ai propri compiti per eccesso di sottomissione alla politica. La stessa volontà del presidente della regione Stefano Bonaccini di bloccare edificazioni contestatissime da un certo mondo ambientalista nel faentino e a Castel Bolognese, annunciando contestualmente l’intenzione di cambiare rotta in materia di previsioni edilizie, parrebbe confermare la fondatezza delle critiche. 


Certo, l'ambientalismo emiliano-romagnolo, come registra Ivano Togni, attivista del WWF e presidente fino al 2013-14 della sezione cesenate, ha le sue colpe, perché ha perso da un po’ “la percezione bio-regionale del territorio” e il fatto che sia costituito da “vasi comunicanti" e che quindi “i luoghi naturali vanno difesi a denti stretti anche se non cabita nessuno”. In altre parole ci si riduce soprattutto “a fare ambientalismo cittadino". "Si strilla magari per potature eccessive o per il taglio dei lecci davanti alla Malatestiana a Cesena, ma il Fumaiolo disboscato, poiché è fuori dall’occhio dell’ambientalismo, è ok”. Un’involuzione, sicuramente, ma resta inoppugnabile l’evidenza che in Emilia-Romagna chi invoca la sostenibilità come mantra è l’opposto dell’identikit disegnato dal generale Roberto Vannacci in “Il mondo al contrario”, quando descrive “gli ambientalisti dell’ultima ora” come “monaci integralisti che predicano forme di vita ascetiche" e "che tanto anelerebbero, in base a quanto ci propinano, al ritorno al buon selvaggio. Ripudiano il benessere prodotto dal progresso e tornerebbero, a parole, a vivere felicemente in osmosi con la Natura come tutti gli altri esseri del Creato.". Niente di più falso.

L’ambientalismo emiliano-romagnolo non solo non è affatto il partito dei no, ma anche è entrato, come si suol dire, nella stanza dei bottoni. Sauro Turroni, classe ‘47, architetto, una vita per l’ambiente, politico a 360 gradi, Camera e Senato incluse, sempre all'insegna del green, è stato attivo anche negli uffici delle amministrazioni di Cervia, Cesena e regionali. Nella sua lunga e articolata carriera ha unito battaglie di contrasto ma anche operatività costruttiva, contribuendo alla creazione di parchi, piani paesisitici, proposte di legge. Silvia Zamboni, giornalista ambientale, è consigliera regionale a Bologna eletta all’interno della coalizione che ha portato Bonaccini alla vittoria nel dicembre 2019, rivestendo la carica di vice-presidente del Consiglio regionale e ottenendo anche incarichi di relatrice di maggioranza per progetti di legge ambientalmente molto qualificanti quali, per esempio, quello sui distretti del biologico. Dal 2001 Fausto Pardolesi, geometra e, sulla base del suo stesso curriculum vitae, conquistato a partire dagli anni ‘80 alla causa della gestione dei fiumi romagnoli secondo finalità rivolte “al recupero degli spazi alla espansione fluviale, alla rinaturalizzazione dell’ecosistema fluviale, alla fruibilità di parti di alvei e argini”, voltando le spalle alla politica della “regimazione spinta di alcuni alvei del territorio romagnolo”, è Responsabile dell’Assetto Idraulico del Servizio Tecnico di Bacino Fiumi Romagnoli con sede a Forlì. Sono solo gli esempi più in vista, ma una trimurti del genere nella Lombardia destrorsa da un trentennio é semplicemente inconcepibile

Detto questo, ci si chiede che cosa abbia impedito a figure così che dopo l’alluvione l’Emilia Romagna fosse rappresentata non solo come vittima del cambiamento climatico e della tropicalizzazione del meteo, ma anche come complice per via del terzo posto per consumo di suolo dopo Lombardia e Veneto e il primo per cementificazione in aree alluvionali, con in specifico città come Ravenna in cima in questa deprecabile classifica. Perché?

La risposta di Daniele Domenichini, politicamente lontano dal centro-sinistra, ma iscritto al WWF, oltre che ingegnere strutturista operativo per decenni con funzioni dirigenziali nel Consorzi di bonifica della Romagna sia nella sua versione tripartita tra Forlì, Cesena e Rimini, sia in quella unificata, è netta. Primo, la montagna è stata abbandonata perché ci vivono poche persone e infatti dall’alluvione del maggio ne è uscita distrutta, ma è lì che bisogna intervenire”. Eppure non lo si fa. Secondo, esiste un Piano stralcio di Bacino che in passato si occupava solo dei fiumi romagnoli ed oggi anche del Po e è “sovraordinato”, nel senso che le amministrazioni locali si devono attenere ad esso, perché contiene “tutte le problematiche idrauliche” e tutte le informazioni su come e dove impedire gli allagamenti. Poi, però, ad esso non si attengono. 

Per esempio, riguardo a Cesena non solo si sapeva benissimo che il tratto urbano del Savio tra il Ponte Vecchio e il Ponte Nuovo era a rischio anche per l’inadeguatezza del Ponte Nuovo, e che il Ponte della ferrovia più avanti “andrebbe rifatto” oltre al fatto che erano previste sette vasche di laminazione a monte per ridurre la piena, ma "ne è stata fatta una sola, che ha lavorato solo in parte”. Ma anche è avvenuto che i tecnici del Piano Stralcio di Bacino, tecnici capaci e sicuramente di grande esperienza e competenza, hanno dovuto fare i conti con un “livello sovraordinato” di natura informale, perché costituito da un “connubio deleterio tra politica e potere economico”. Questo livello, godendo di una sostanziale impunità, ottiene a Cesena come altrove di costruire dove non si dovrebbe. Magari con qualche compromesso tecnico ritenuto sulla carta sufficiente ad impedire disastri. “A Cesena ci sono state case allagate costruite dove non si doveva. Anche negli ultimi anni. Addirittura case di legno, che ora sono da buttare...”

Fausto Pardolesi, indicato nei giorni della tragedia da Angelo Bonelli, co- portavoce di Europa Verde, come presidio all’interno della buona amministrazione dei fiumi romagnoli, alla domanda di quali ostacoli abbiano impedito a figure come la sua di incidere di più e meglio nelle scelte ambientali dell’Emilia-Romagna e contenere i disastri del 16-17 maggio 2023, risponde invece con una distinzione.

 “Le casse di contenimento sul Ronco e altrove sul Montone e sul Rabbi, a monte della via Emilia, hanno funzionato, ma in gioco c’erano 16 milioni di mc usciti dagli argini riguardo al Rabbi e 20 milioni riguardo al Ronco. La sicurezza assoluta non c’è. Oltre alle casse di espansione hanno lavorato quelle involontarie, ma era tanto alta la piena che ha sormontato argini che non dovevano essere sormontati”.

valle della Via Emilia invece gli sbagli ai danni del territorio sono inoppugnabil. Nel forlivese se si confrontano le aree coinvolte tramite Google si scopre una perfetta coincidenza tra il rischio probabile e quello effettivo generato dalle esondazioni del maggio. La conoscenza della minaccia, però, non ha impedito di costruire. Le previsioni urbanistiche sono rimaste e si è andati avanti a cementificare “a suon di prescrizioni”, cioè compromessi e deroghe. In altre parole gli effetti del Piano Stralcio di Bacino per l’Assetto Idrogeologico, istituzione che risale agli inizi del millennio e ad oggi, rileva Pardolesi, risulta impoverita di personale (“siamo in pochi e male attrezzati per un territorio vasto che va da Ponte Uso a San Benedetto in Alpe”) sono stati limitati dalla politica.

“Quando cercammo di imporre che le previsioni di allagamento fossero sufficienti per eliminare gli insediamenti previsti” scoppiò un putiferio. D’altra parte “se per dieci anni uno paga l’Imu su terreni edificabili e poi si sente dire no non puoi più costruire si arrabbia no?” E la legge urbanistica del 2017, che avrebbe dovuto contenere il consumo di suolo, tale è stata solo in teoria. “Con gli accordi di programma si fa la variante per motivi di pubblico interesse: tu mi fai una scuola e io ti faccio costruire. I capannoni nuovi sono a centinaia e a decine quelli in costruzione”. 

Tutto questo in un territorio di bonifica, nel quale i fiumi non arrivano al mare, non hanno pendenza, s’ingolfano in coincidenza delle città e non solo, dal momento che gli insediamenti sono ovunque e sotto minaccia. E almeno si vietassero i piani interrati. Che però, siccome non fanno volumetria, non solo li si fa, ma anche nella parte della tavernette diventano le stanze più vissute della casa.” Quelle che si riempiono d’acqua fino al soffitto.


martedì 20 febbraio 2024

LA REGIONE EMILIA-ROMAGNA SUL BANCO DEGLI IMPUTATI NELL'INCONTRO SULLA COLLINA PRIMA E DOPO L'ALLUVIONE DEL MAGGIO 2023 INTITOLATO "RILIEVI" PRESSO LA SEDE DELLA SOCIETÁ AGRICOLA ORTICÁ A SORRIVOLI. POCHI SOLDI E TANTO DISINTERESSE DA PARTE DELLE ISTITUZIONI REGIONALI CHE DI COLLINA DOVREBBERO OCCUPARSI: DALL'AUTORITÁ DI BACINO AL CONSORZIO DI BONIFICA PER FINIRE AGLI UFFICI PREPOSTI ALL'AGRICOLTURA. ANCHE DOPO L'ALLUVIONE IN COLLINA SOLO RATTOPPI. GLI INTERVENTI PREVENTIVI VANNO TUTTI ALLA PIANURA ANCHE SE É ASSODATO CHE L'ALLUVIONE DEL MAGGIO 2023 É STATA DETERMINATA DALLA PIOGGIA FUORI SCALA CADUTA IN COLLINA. CHE NON TRATTIENE PIU' LE ACQUE.

Severo j'accuse domenica 18 febbraio a Sorrivoli negli spazi di OrtiCLab, base operativa della societagricola omonima di Martina e Carlo Enrico, agricoltori bio, per parlare di collina e cambiamento del clima. Da Andrea Fantini, autore di Un autunno caldo: Crisi ecologica, emergenza climatica e altre catastrofi innaturali, da Andrea Benini del Servizio Tecnico di Bacino della Romagna e da Gabriele Antonini dell’Osservatorio clima di Arpae non solo s'è udito l’annuncio (Antonini) che riguardo alla temperatura media del pianeta rispetto all’età preindustriale l’obiettivo di stare sotto il grado e mezzo in più “è già morto”, mentre il successivo dei due gradi ”è sul letto di morte”.

Anche, anzi soprattutto, da parte di Benini e Antonini viene criticata tutta l’azione regionale dell’Emilia-Romagna prima e dopo l’alluvione del maggio 2023. Cominciando dal prevalente focus sulla pianura nella corsa ai ripari contro simili guai futuri. Il malato grave infatti la collina. “La perturbazione partita dal mare in collina che si scaricata: sulle colline del faentino caduta la metdella pioggia annuale e, anche se si parlato di eventi con ricorrenza cinquecentennale” e l’attribuibilità al climate change non dimostrata, ha sottolineato Antonini, la certezza che il guaio si possa ripetere scontata. Come agire?

Smettendo di abbandonare la collina, dice Benini. Non per nulla il titolo dell’incontro è Rilievi. Bisogna “cambiare rotta”. Cosa che purtroppo non si sta facendo, perché, passata l’emergenza, si lavora agli argini in pianura, magari tagliando gli alberi, e si progettano casse di espansione dopo che quelle che già c’erano non sono bastate come non basteranno le nuove. E non si affronta, invece, “il tema dei detriti e dell’acqua che vengono dalla collina”. Dove si sta lavorando per rattoppare, ma i soldi necessari non bastano per “rendere gli interventi definitivi e non provvisori”.

E siccome purtroppo l’autorità di bacino “è stata allontanata dai territori” non resta, per chi in collina vive e lavora, che “fare da sé”, armandosi “nel suo piccolo con la zappa” per “regimentare l’acqua e convivere con questi eventi estremi senza aspettare gli enti”. Sembrano parole di amara ironia, visto che, come osservato dal pubblico, per esempio nelle colline a ridosso di Cesena, non vivono contadini ma avvocati e medici che hanno trasformato vecchi casali in ville, ma è la politica che ha voluto questo: la stessa politica che decide tanto l'edificazione nei posti sbagliati, benché avvertita dei pericoli, quanto la costruzione di vasche di contenimento per tranquillizzare il cittadino dopo il disastro.

La politica, sempre lei, che ha condotto il Consorzio di bonifica, a cui la collina versa denaro, a non esserci più per la collina. “Prende i soldi ma si concentra sul fondovalle”. Perché? Non si sa: “siamo di fronte ad un muro di gomma, nel senso che si tratta di un problema politico e non c’è risposta”.

Come per tante altre questioni. Bisognerebbe, per esempio, vietare la coltivazione dei kiwi, che richiedono grandi quantitdi acqua, magari prelevata di notte durante i divieti, ma “come si fa se al politico interessa solo il consenso? una brutta storia quella tra la conservazione del territorio e la politica”. Il personale stesso al Consorzio di bonifica occidentale è ridotto a “poco” e “spesso la progettazione è girata all’esterno...”

D’altra parte la voce della collina è debole nelle stanze della politica, e non solo perché “ci lavora sempre meno gente con un minimo di fatturato”. Ma anche perché "noi dell’agricoltura -interviene una figura regionale preposta al settore- non abbiamo nessun potere programmatorio. Dopo l’alluvione si è fatto un censimento dei danni ex post, ma poi tutto è deciso a Bologna” . E dà l’idea della lontananza sulla questione tra centro e periferia il fatto che “da Cesena sono pervenute solo cinque domande di contributi su centinaia di aziende danneggiate”. Che significa che “il bando non è stato scritto bene”. 

domenica 18 febbraio 2024

VISITA AL PAESE DELLE DIVISIONI O DEL DOPPIO FATE VOI: MONDAINO, NEL RIMINESE. DUE I DIALETTI, DUE GLI ANTICHI SIGNORI, DUE LE CHIESE ANTAGONISTE, EBREI E CRISTIANI CHE SI AVVICENDARONO NELLO STESSO EDIFICIO CHE OGGI ACCOGLIE IL TURISTA CON L'IMPRESA DI PRODOTTI TIPICI, A COMINCIARE DAL FORMAGGIO DI FOSSA, DEL "MULINO DELLE FOSSE DELLA PORTA DI SOTTO" DEI FIGLI DI ANGELO CHIARETTI, DOPPIO PURE LUI NEL SUO RUOLO DI GUIDA TURISTICA IN ABITI DANTESCHI E PROMOTER DELL' ATTIVITÁ CONDOTTA DAI FIGLI.


A Mondaino, 1400 abitanti, provincia di Rimini, incontri Dante che ti guida a comprendere il Genius loci  di questo paese tra Romagna e Marche. Paese diviso o doppio... largo alle preferenze, perché ospitò Guelfi e Ghibellini, oscillò tra Montefeltro e Malatesta, i suoi abitanti amano definirsi marchignoli, i dialetti sono due e pure oggi vi si combatte una moderna guerra di religione secondo quanto attesta Angelo Chiaretti, vestito in abiti danteschi e già docente ad Urbino oltre che egli stesso duplice in quanto romagnolo di nascita e marchigiano d'elezione e nostra guida sabato 17 febbraio 2024 in questa estrema Romagna guidati da Gianni Giunchi all'insegna del suo progetto intitolato Luogo che salva la bellezza...

Dopo averci condotto dalla circolare piazza Maggiore fino al crinale da cui, a dire del nostro Dante, discendendo si va nelle Marche e salendo in Romagna, ci viene infatti narrato di due chiese di Mondaino in guerra. Quella romagnola di San Michele Arcangelo e quella di Sant'Agnese a pochi passi una dall'altra in via Roma. La seconda il parroco l'avrebbe chiusa in atto di ostilità verso chi, marchigianamente, ne chiede l'utilizzo. Non siamo riusciti ad ascoltare la campana del parroco...

Siamo invece stati accolti nel Mulino delle Fosse della Porta di Sotto nella parte finale di via Roma che un tempo fu ebraica poi divenne cristiana. Lì i figli della nostra guida, nella circostanza ancora più doppia in quanto sia cicerone sia promoter dell’impresa famigliare, impartiscono una lezione sul formaggio di fossa coi suoi tre mesi di stagionatura e gli 81 giorni di infossatura nei tre cilindrici ipogei di questo locale che sforna 16 mila forme in tre tipologie: fossa classico, stagionato nel grano e il caprino. Il tre qui prevale.

L'impresa è infatti alla terza generazione e nei suoi spazi espone una Divina Commedia in tre volumi, che il solito Dante definisce come la più grande al mondo. Ciascun volume pesa sessanta kg.


 


domenica 21 gennaio 2024

“PER NON DIMENTICARE…” È IL TITOLO DELLA MOSTRA DEI VENTI QUADRI ISPIRATI AL DRAMMA DELLO SHOAH CREATI DAL CESENATE ANTONIO DAL MUTO ED ESPOSTI AL PALAZZO BELLINI DI COMACCHIO PER L’OCCASIONE DELLA GIORNATA DELLA MEMORIA (27 GENNAIO 2024). DONATI DALL’ARTISTA ALL'ANPI DELLA CITTADINA LAGUNARE ANNI FA E PER UN PO’ RIMASTI INUTILIZZATI, L'ASSOCIAZIONE DEI PARTIGIANI IN COLLABORAZIONE COL COMUNE QUEST’ANNO LI HA RECUPERATI PER UNA PERSONALE DEL MAESTRO OTTIMAMENTE ALLESTITA IN QUANTO CAPACE DI RESTITUIRE A QUESTE ORIGINALISSIME OPERE TUTTA LA LORO FORZA ESPRESSIVA E COMUNICATIVA. FINO AL 17 FEBBRAIO TUTTI I GIORNI DOMENICA ESCLUSA.


Le venti opere ispirate dalla Shoah del cesenate Antonio Dal Muto, pittore, storico e graphic novelist, e donate anni addietro dall'autore all'Anpi di Comacchio, sono in mostra fino al 17 febbraio a Palazzo Bellini della cittadina lagunare.

Sono quadri, dice l'artista, nati quasi un ventennio fa dal lavoro di una mese per puro impulso emotivo. Dal Muto non ha mai visitato un campo di sterminio, ma è come se non ne avesse avuta la necessità. Non è la vista che nutre queste immagini, ma la profonda condivisione della pena patita ormai ottant'anni fa da esseri umani degradati, annichiliti, deformati e uccisi dalla crudeltà nazi-fascista. 

A cui Dal Muto ha fornito voce attraverso la violenza dei contrasti forti di colori e forme combinati con l'espressività dei volti, degli occhi e delle pose. 

Sono quadri parlanti che lasciano il segno anche grazie all'ottimo, invidiabile, allestimento. Affrontano infatti il visitatore emergendo da un buio che li accende. Con tutto il loro messaggio di dolore e condanna.








martedì 2 gennaio 2024

LO SPAZIO PINO DANIELE LIVE A NAPOLI, INGRESSO 20 EURO, CI RESTITUISCE L'ARTISTA DI IO SO' PAZZO CON GLI OGGETTI, DALLE CHITARRE AGLI AMPLIFICATORI ALLA SALA DI REGISTRAZIONE AL COMPLETO. É UN'IMMERSIONE NEL MONDO ARTISTICO E NELLA CARRIERA DI QUESTA FIGURA UNICA E FONDAMENTALE DEL POP ITALIANO E INTERNAZIONALE, DI CUI IL QUATTRO GENNAIO RICORRE IL GIORNO DELLA MORTE AVVENUTA NOVE ANNI FA E CHE DELLA NAPOLETANITÁ COSTITUISCE UN INTERPRETE IMPRESCINDIBILE

Una puntata turistica a Napoli potrebbe senza dubbio includere la visita al Pino Daniele Alive, in particolare in questi giorni in cui cade la data della morte (4 gennaio 2024) del musicista e cantautore (questa era la successione dei titoli a lui preferita) napoletano. Se non fosse che di sicuro non incoraggia l'esosità dei 20 euro richiesti alla fine del percorso e malamente etichettati come “donazione liberale” senza però che tale cifra sia espressa nero su bianco da alcuna parte, neppure nel sito della fondazione.

Ma un giro, previo appuntamento (340 806 2908) in via Depretis 130, al secondo piano del Sum (Stati Uniti del Mondo) in questo memorial di un artista così significativo per la musica pop e in specifico per il blues, non delude. Ci sono le sue chitarre, lo strumento, il suo, che acquistò in gran quantità, ciascuna particolarissima. Anche quelle con tacche visive per un Pino ormai alla fine e quasi ridotto alla cecità. Alcune furono rubate nel giorno del suo funerale

É stato poi ricostruita la sua sala di registrazione. Microfoni, amplificatori, lo sgabello stesso nella posizione preferita da Pino. In una stanza c'è l'Africa. Con il cui sound nella sua passione di sperimentatore, che lo avrebbe allontanato dalla napoletanità per attraversare nuove frontiere, Pino dialogò in modo particolarmente devoto. 

Inoltre una accurata linea del tempo ci restituisce l'arco della sua carriera: costellata dai compagni di viaggio con cui esordì, collaborò e che sostenne come produttore. Cominciando da Tullio De Piscopo, passando per Pat Metheny e Paco de Lucia. E finendo con tanti altri da Jovanotti a Vasco Rossi a Pavarotti.

E naturalmente in cuffia, insieme a tanti filmati, parole e immagini, si può ascoltare la sua musica. In particolare quella nata, come lui stesso affermò, con la scoperta che "sposando il blues con la canzone napoletana potevo far uscire Io so' pazzo". E che "con la latina poteva suonare melodia e ritmo insieme".