Detto questo, ci si chiede che cosa abbia impedito a figure così che dopo l’alluvione l’Emilia Romagna fosse rappresentata non solo come vittima del cambiamento climatico e della tropicalizzazione del meteo, ma anche come complice per via del terzo posto per consumo di suolo dopo Lombardia e Veneto e il primo per cementificazione in aree alluvionali, con in specifico città come Ravenna in cima in questa deprecabile classifica. Perché?
La risposta di Daniele Domenichini, politicamente lontano dal centro-sinistra, ma iscritto al WWF, oltre che ingegnere strutturista operativo per decenni con funzioni dirigenziali nel Consorzi di bonifica della Romagna sia nella sua versione tripartita tra Forlì, Cesena e Rimini, sia in quella unificata, è netta. Primo, “la montagna è stata abbandonata perché ci vivono poche persone e infatti dall’alluvione del maggio ne è uscita distrutta, ma è lì che bisogna intervenire”. Eppure non lo si fa. Secondo, esiste un Piano stralcio di Bacino che in passato si occupava solo dei fiumi romagnoli ed oggi anche del Po e è “sovraordinato”, nel senso che le amministrazioni locali si devono attenere ad esso, perché contiene “tutte le problematiche idrauliche” e tutte le informazioni su come e dove impedire gli allagamenti. Poi, però, ad esso non si attengono.
Per esempio, riguardo a Cesena non solo si sapeva benissimo che il tratto urbano del Savio tra il Ponte Vecchio e il Ponte Nuovo era a rischio anche per l’inadeguatezza del Ponte Nuovo, e che il Ponte della ferrovia più avanti “andrebbe rifatto” oltre al fatto che erano previste sette vasche di laminazione a monte per ridurre la piena, ma "ne è stata fatta una sola, che ha lavorato solo in parte”. Ma anche è avvenuto che i tecnici del Piano Stralcio di Bacino, tecnici capaci e sicuramente di grande esperienza e competenza, hanno dovuto fare i conti con un “livello sovraordinato” di natura informale, perché costituito da un “connubio deleterio tra politica e potere economico”. Questo livello, godendo di una sostanziale impunità, ottiene a Cesena come altrove di costruire dove non si dovrebbe. Magari con qualche compromesso tecnico ritenuto sulla carta sufficiente ad impedire disastri. “A Cesena ci sono state case allagate costruite dove non si doveva. Anche negli ultimi anni. Addirittura case di legno, che ora sono da buttare...”
Fausto Pardolesi, indicato nei giorni della tragedia da Angelo Bonelli, co- portavoce di Europa Verde, come presidio all’interno della buona amministrazione dei fiumi romagnoli, alla domanda di quali ostacoli abbiano impedito a figure come la sua di incidere di più e meglio nelle scelte ambientali dell’Emilia-Romagna e contenere i disastri del 16-17 maggio 2023, risponde invece con una distinzione.
“Le casse di contenimento sul Ronco e altrove sul Montone e sul Rabbi, a monte della via Emilia, hanno funzionato, ma in gioco c’erano 16 milioni di mc usciti dagli argini riguardo al Rabbi e 20 milioni riguardo al Ronco. La sicurezza assoluta non c’è. Oltre alle casse di espansione hanno lavorato quelle involontarie, ma era tanto alta la piena che ha sormontato argini che non dovevano essere sormontati”.
A valle della Via Emilia invece gli sbagli ai danni del territorio sono inoppugnabil. Nel forlivese se si confrontano le aree coinvolte tramite Google si scopre una perfetta coincidenza tra il rischio probabile e quello effettivo generato dalle esondazioni del maggio. La conoscenza della minaccia, però, non ha impedito di costruire. Le previsioni urbanistiche sono rimaste e si è andati avanti a cementificare “a suon di prescrizioni”, cioè compromessi e deroghe. In altre parole gli effetti del Piano Stralcio di Bacino per l’Assetto Idrogeologico, istituzione che risale agli inizi del millennio e ad oggi, rileva Pardolesi, risulta impoverita di personale (“siamo in pochi e male attrezzati per un territorio vasto che va da Ponte Uso a San Benedetto in Alpe”) sono stati limitati dalla politica.
“Quando cercammo di imporre che le previsioni di allagamento fossero sufficienti per eliminare gli insediamenti previsti” scoppiò un putiferio. D’altra parte “se per dieci anni uno paga l’Imu su terreni edificabili e poi si sente dire no non puoi più costruire si arrabbia no?” E la legge urbanistica del 2017, che avrebbe dovuto contenere il consumo di suolo, tale è stata solo in teoria. “Con gli accordi di programma si fa la variante per motivi di pubblico interesse: tu mi fai una scuola e io ti faccio costruire. I capannoni nuovi sono a centinaia e a decine quelli in costruzione”.
Tutto questo in un territorio di bonifica, nel quale i fiumi non arrivano al mare, non hanno pendenza, s’ingolfano in coincidenza delle città e non solo, dal momento che gli insediamenti sono ovunque e sotto minaccia. E almeno si vietassero i piani interrati. Che però, siccome non fanno volumetria, non solo li si fa, ma anche nella parte della tavernette diventano le stanze più vissute della casa.” Quelle che si riempiono d’acqua fino al soffitto.
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