domenica 25 dicembre 2022

ALBERTO CONTI MUORE UN ANNO FA NELLA NOTTE DEL NATALE 2021 IN PIENA TEMPESTA PANDEMICA. SETTANTANNI, INGEGNERE STRUTTURISTA, PENSIONATO DAL 2018, CICLISTA DI LUNGO RAGGIO E, SOPRATTUTTO, AMBIENTALISTA FORLIVESE CON TRENTADUE ANNI DI MILITANZA NEL WWF, RUMAGNACUMCLAJÈ LO RICORDA CON UN RITRATTO INEDITO FRUTTO DI UN'INTERVISTA DEL 2019.

ALBERTO CONTI, FOTO DI IVANO TOGNI

Agli antipodi, per dire, della faentina Linda Maggiori, Alberto Conti è sinonimo di social al minimo se non nulli, meglio la classica conferenza stampa. Come Linda a Faenza, però, Conti è centrale nel dibattito forlivese pur senza personalizzazioni. Rispetto alle istituzioni locali e regionali è dialogante, ma anche pronto allo confronto duro. Anche coi Verdi locali. Sempre però lungo il filo conduttore di una storia amministrativa della città romagnola del tutto particolare se non unica. In Romagna e forse non solo.

Parlare di Conti significa infatti parlare del Tavolo delle Associazioni Ambientaliste di Forlì di cui l’ingegnere è coordinatore dal 2013. “Nato - recita a memoria nell’ufficio dell’Assiprov forlivese- nel 2011, sindaco Roberto Balzani (2009-14, NdA) con delibera di giunta numero 182 del 23 giugno dopo che eravamo stati già coinvolti nel ruolo di consulenza volontaria pro- amministrazione tanto rispetto alla giunta stessa quanto anche ai gruppi consiliari, il Taaf non è una consulta ambientale. È stato costituito con una delibera per così dire leggera che ci riconosce tutte assieme come associazioni ma solo per capire come la pensiamo. Noi avremmo voluto una cosa più pregnante: essere interpellati prima di una decisione, ovviamente in senso puramente consultivo, per contribuire alle decisioni e al lavoro degli uffici. Niente parere preventivo invece. Avviene semplicemente che, informati sulle problematiche e tematiche che via via saltano fuori, chiediamo di approfondirle all’assessore. Che ci mette in contatto con gli uffici coi quali poi ci rapportiamo. In altre parole, a patto che il lavoro dell’amministrazione non sia rallentato, otteniamo il consenso dell’assessore per ottenere le informazioni grazie alle quali possiamo formulare le nostre osservazioni entro un termine massimo: dieci giorni, per esempio, meglio pure un giorno prima che dopo...”

Massimo terreno di prova dell’operazione Taaf fu la questione dei rifiuti. “Prima delle elezioni del 2009 –ricorda Conti- il 9 giugno per l’esattezza, il candidato Balzani ci chiama tutte, dico le associazioni ambientaliste, Italia Nostra, Wwf, Medici per l’Ambiente... cioè non tutte ma sicuramente molte, e ci dice: voglio un rapporto organico con voi, in particolare voglio iniziare un percorso post-inceneritore e superare la prevalenza di Hera che l’inceneritore gestisce. Ci propone in pratica una rottura rispetto alla politica precedente, rispetto al passato”.

L’inceneritore di Forlì nasce negli anni ’70 con le amministrazioni rosse di Angelo Satanassi che regalarono a Forlì il centro pedonalizzato e la soluzione tecnologicamente più avanzata di allora per la gestione rifiuti per andare oltre alle discariche. Nel 2003-4 l’impianto era stato riassettato e potenziato da 60 mila tonnellate annue alle attuali 120-150 mila al servizio di un raggio provinciale, ma, puntualizza Conti, con noi contrari, perché “noi sostenevamo che con la differenziata sarebbe bastato com’era all’inizio. Perciò con Balzani ci stiamo. La novità c’è. I sindaci prima non ci potevano neanche vedere”.

Il Wwf a Forlì, per capirci meglio, nasce negli anni ’60, decennio “micidiale per l’ambiente”, nel corso del quale inizia il dibattito su come rifornire la Romagna di acqua non inquinata da nitriti e nitrati legati all’agricoltura intensiva. Tramite il Canale Emiliano-romagnolo e l’invaso di Ridracoli che sarà completato con l’acquedotto nell’88, o, come il Wwf avrebbe preferito, “con un uso non consumistico delle risorse idriche combinato con il canale e le risorse fluviali della prima fascia di pianura dei vari Savio, Montone, Marecchia?”

Ebbene, Balzani si era collocato sempre su posizioni critiche rispetto all’epopea di Ridracoli e del suo massimo propugnatore, Giorgio Zanniboni, già sindaco comunista di Forlì negli anni ’80 e poi primo presidente (1989) del Consorzio Acque inizialmente forlivese-ravennate poi di tutta la Romagna...

Certo, alla prova dei fatti i rapporti tra il Taaf e Roberto Balzani non furono idilliaci né all’inizio della, chiamiamola così, collaborazione, né durante quelli che l’ex-sindaco nel suo libro battezzò come Cinque anni di solitudine. In particolare con chi “gestì il tavolo materialmente” (parole di Balzani), cioè quell’Alberto Bellini, ingegnere elettronico e assessore all’ambiente dal 2009 al 2015, chiosa Conti, “non ci amavamo!”

Per quanto promosso dall’amministrazione comunale, così Conti motiva il mancato idillio, il Taaf non era (e non è) integrato con essa. Era (ed è) autonomo: nel giudizio e operativamente e, se da parte sua “Bellini in particolare era poco incline al rapporto col Taaf, riguardo a noi, noi del Taaf, da una parte non ci siamo mai conformati con loro, dall’altra avevamo e abbiamo conquistato presa con la popolazione che ci prendeva e prende sul serio”.

Quel quinquennio però ha creato le premesse per raggiungere l’obbiettivo ambito da tanto associazionismo e ambientalismo romagnolo, e secondo Conti auspicato da Balzani: scalzare dalla gestione dei rifiuti del forlivese la potente multiutility, Hera, dominus del settore in Emilia-Romagna (si affidano ad Hera attualmente circa l’80% del totale delle amministrazioni romagnole, Imola compresa). Dal 2017 infatti Alea Ambiente SpA, società interamente pubblica, provvede ai rifiuti di Bertinoro, Castrocaro Terme e Terra del Sole, Civitella di Romagna, Dovadola, Forlì, Forlimpopoli, Galeata, Meldola, Modigliana, Portico e San Benedetto, Predappio, Rocca San Casciano e Tredozio. Ed è cambiata in modo significativo (con il “porta a porta”) la modalità del servizio.

E Conti non solo è costantemente in trincea, in dibattiti, media e istituzioni, per rivendicare il successo del “Modello Alea” in termini di minori costi, maggiore differenziato (85%), minore indifferenziato (abbandoni e conferimenti illeciti in comuni limitrofi compresi) e minori rifiuti complessivi, ma anche per contrastare le false notizie che fioccano da ogni parte sull’argomento. Inoltre appare sempre più determinato riguardo alla strategia politica con cui l’obbiettivo è stato raggiunto e quindi riguardo alla replica della medesima per altre battaglie.

“Se non ci fosse stato il Taaf, di cui io sono solo coordinatore e tiro la carretta perché questo tavolo funzioni e continui a funzionare, ma solo come primus inter pares, perché ci sono altri di me meno visibili, ma altrettanto determinati... Senza il Taaf, dicevo, Alea non si sarebbe fatta non perché abbiamo potere, ma perché l’abbiamo sostenuta pubblicamente, informando il pubblico e contribuendo a rafforzare l’iniziativa, ma solo come organo a latere. Senza di noi non ci sarebbe stata la collaborazione di altri cittadini, perché abbiamo allargato la base sociale, fatto uscire la cosa dalle chiuse stanze. Certo, prima c’è stato Balzani (e Drei, che ha mantenuto l’impegno) ma noi abbiamo rappresentato il valore aggiunto dell’operazione, sostenendola ma sempre tanto da una posizione collaterale quanto sulla base di una valutazione critica...”

Stesso format operativo quindi per l’obbiettivo prossimo, che è del WWF, ma solo come ispiratore iniziale. Già in moto cioè per allargarsi ad altri, associazioni in primis: in vista del rinnovo del Piano Urbano Generale Conti e il WWF puntano ad una collaborazione tra i comuni di Predappio, Meldola, Bertinoro, Forlimpopoli e Castrocaro finalizzata a ri-naturalizzare il territorio con una “eco-pianificazione” rappresentata da aree protette e naturali e foreste periurbane lungo una fascia della collina forlivese che, partendo da Bertinoro, passi per Meldola, Forlì, Castrocaro, Predappio, Modigliana, Brisighella, e confluisca infine nel Parco della Vena del Gesso...

sabato 17 dicembre 2022

DONNE IN DIALETTO CHIUDE IL 15 DICEMBRE LA SERIE RIMINESE DEDICATA ALLE POETESSE ROMAGNOLE CON I VERSI DI TURCI E AGNESE FABBRI E UN PAIO DI INTERROGATIVI SUL FUTURO DEL ROMAGNOLO E SU QUANTO DI NUOVO LE NUMEROSE POETESSE CONTEMPORANEE STANNO APPORTANDO A QUESTO FILONE DELLA LETTERATURA ITALIANA CHE EBBE GRANDI COME TONINO GUERRA E RAFFAELLO BALDINI

Riproduzione in scala 5:1 della figura adorante  femminile detta Cuchimilco
Perù, 1000-1450 d. C., Rimini, Museo della città

Ripiegando sul lirico e sull’intimistico, allontanandosi cioè dalla tradizione giocosa, comica, narrativa, dialogante, ironica, se non addirittura civile, di un Baldini, di un Nadiani, di una Rocchi, anche di un Guerra, la poesia romagnola non rischia di restringere ulteriormente il suo pubblico e, di conseguenza, di limitare anche la sua capacità di allungare la vita al dialetto? Fungendo, per il dialetto, da canto del cigno? La Romagna non è il Veneto o la Toscana. Come si osserva nell’ultimo, 15 dicembre 2022, dei quattro incontri riminesi della rassegna Donne in dialetto: Lingua madre e poete di Romagna, curata da Fabio Bruschi, le protagoniste del quale sono state la meldolese Laura Turci e la lughese Agnese Fabbri, “ai romagnoli piacciono le novità e così come nel dopoguerra hanno preferito i mobili di formica a quelli di legno massello altrettanto hanno buttato via le parole di legno (dialetto) e preso quelle di plastica (italiano), rendendosi conto anni dopo di aver commesso un grave errore”. Il dialetto romagnolo è ormai soltanto una pura lingua letteraria.

Esprimentesi attualmente, grosso modo, in tre filoni. Il primo è, appunto, rappresentato da poetesse come Turci e Fabbri, che sulla linea aperta da Annalisa Teodorani affidano al dialetto un lirismo estremo, spesso impegnativo per il lettore, perché formalmente distillato dal proprio vissuto e dal culto della parola. Ci sono poi i raduni dialettali post-pandemici come quelli organizzati da Manuela Gori di Cesena, per conto dell’associazione Te ad chi sit e' fiol, intitolati significativamente Gatozli, che vuol dire grosso modo solletico. Nei circoli Endas o Arci richiamano affezionati del dialetto acsè par rìd. Quindi con generoso uso dell’armamentario classico del comico-realismo: dal vituperio all’oscenità al bozzetto comico in un clima da amarcord e revival e testi poetici, barzellette, facezie, e poeti, cantautori e narratori prevalentemente maschili. Per un pubblico, anche qui, attempato, anche se è falso che ai giovani il dialetto non interessa: basti, a conferma del contrario, il trap In tlà mi Rumagna, col quale al tempo della pandemia il duo di Romagnoli popolo eletto ci tirava su il morale. 

Tra questi due estremi si collocano raccolte come l'ultima di Paolo Faetanini, Te mez dlà nota, 2020, con più evidenza riconducibile alla lezione dei grandi santarcangiolesi degli anni settanta e ottanta, ma torniamo all'ultimo appuntamento riminese di Donne in dialetto.

Oltre a suggerire qualche dubbio sul futuro del dialetto e quindi della poesia dialettale negli ultimi decenni fortemente femminilizzata, la rassegna di Bruschi prova anche a rispondere all'interrogativo se esista o no una “specificità femminile" in questo dialetto poetico xx.Tanto Teodorani, che leggeva i testi di Laura Turci, quanto Fabbri, docente di lettere a Lugo, hanno però sostanzialmente detto “passo” alla domanda a loro rivolta. Inevitabilmente: è una domanda troppo metafisica.

Sarebbe stato più utile chiedere: le poetesse romagnole portano a questo filone della poesia nazionale, di cui sono degne eredi, contenuti nuovi? E la risposta è: certamente. Basti la raccolta che Borgini ci regalò in piena pandemia: Acsè al dòni, stampata sul filo del primo lockdown, il 14 febbraio 2020, giorno di San Valentino. La linfa che nutre i versi del libretto è il buono e il bene nella vita quanto più è possibile e dove c’è. Anche perché, ed eccoci al punto che peraltro tanto ci fa pensare alle coraggiose donne iraniane, “aréndsi // ù n’è da nun dòni”. 

Bisogna però che li covino e quindi li esprimano questi nuovi contenuti. Il che, se l'intimismo è troppo introverso, appare difficile. E questo non aiuta molto il futuro del dialetto romagnolo...


sabato 10 dicembre 2022

AVERE TUTTO, ULTIMO ROMANZO DI MARCO MISSIROLI, EINAUDI, NARRA DEL RITORNO DEL MILANESE SANDRIN NELLA RIMINI E NELLA ROMAGNA DELLA SUA GIOVENTÚ, DEI GENITORI E DEL PADRE IN PARTICOLARE, MA PIÚ CHE UN RITORNO ALLE RADICI É UNA DISCESA ALLA RICERCA DI SÉ. UNA RINASCITA SENZA ENFASI, SENZA RETORICA

 

A Milano lo chiamano Rimini, a Rimini quello che va e viene da Milano. Il protagonista dell’ultimo romanzo di Marco Missiroli, Avere tutto, Einaudi, è però soprattutto un romagnolo, perché la storia esonda dalla sua Rimini del passato e del presente a tutta la Romagna: da Montescudo a San Zaccaria, da Cesena a Cervia a Santarcangelo. Rimini soprattutto naturalmente, ma a modo suo il romanzo è anche un on the road sulla Renault 5 del padre, Nando, settantaduenne, ballerino sfegatato insieme alla moglie Caterina, defunta cinque anni prima. Nando pure è protagonista insieme al figlio romagnolo-milanese, Alessandro Pagliarani. Perché la storia si regge tutta sulla relazione tra i due.

Dicevamo della Romagna, ma una Romagna ruvida, spaesata, disincantata, “senza cagnara”, “fiacca”. Con scorci tipo “Chissà perché a Rimini i gabbiani non urlano mai”, nel quale certamente il lettore romagnolo non potrà che inciampare. Anche perché, ci assicurano, non è vero. Lo è però per Alessandro/Sandro/Sandrin che è tutto raccolto nella doppia fatica del confronto/scontro col presente, anche personale, e della raccolta dei frammenti del suo passato, quello riminese, quello di prima di passare all’università a Bologna e poi a Milano come pubblicitario, per rientrare quindi, e torniamo al presente, in patria. Restandoci in conseguenza di un richiamo che via via andrà sempre più dolorosamente manifestandosi.

Presente e passato vissuti sul filo del rasoio per via di un anelito di onnipotenza, come si suol dire, acquisito forse col latte materno. Nel quale cioè il lettore potrebbe pure individuare un che di squisitamente romagnolo. Anche per i tratti, come spesso accade, distruttivi. Di certo c'è che presente e passato sono entrambi sospesi tra passione e disperazione, malattia e riscatto: riscatto, però, senza palingenesi, senza nostalgia. Neanche della Romagna, della “Rimini dura con i timidi”. 

Padre e figlio, però, si capiscono perfettamente, questo sì. “Gli confidavo tutto senza confidargli niente”. La tematica del romanzo in fondo è tutta qui: in questa intesa, in questo cedersi amichevolmente il testimone della vita...

Sequenza emblematica del tono e della visione che nutrono il romanzo è, per esempio, una di carattere molto laterale (scusate se non vi neghiamo la sorpresa della trama: basti che il libro si presta bene per una sceneggiatura, perché comunque è solida, ben scavata nel travaglio di Sandrin). Quella del ricordo dell’inumazione della madre. Vita e morte convivono, magari schiaffeggiandosi, in tutto il romanzo. Nel momento esatto in cui la bara viene infilata nel loculo, mentre tutti gli altri, in primis gli ex alunni della maestra e pittrice Caterina diventati grandi, sono lì intorno, il marito Nando sparisce.

Alessandro e l’amico prete Don Paolo lo ritroveranno in seguito rifugiato “dietro la cappella centrale”. Da dove Nando “aveva allungato il collo e aveva chiesto se la posa sarebbe stata a malta o a incastro”. Dopotutto anche la morte è una formalità.

venerdì 2 dicembre 2022

VITTORIO SGARBI OGGETTO E SOGGETTO A FERRARA NELLA MOSTRA SUL PITTORE E SCULTORE CARLO GUARIENTI E POI ANCORA ALTRO DI QUESTA CITTÀ CHE SORPRENDE E ANNOIA ENTUSIASMA E IMMALINCONISCE

La sorpresa maggiore di un paio di giorni a Ferrara circa tre settimane fa è stata il quadro di Vittorio Sgarbi dipinto da Carlo Guarienti, artista che l’anno prossimo compie cent’anni. Un Vittorio bravo ragazzo, tranquillo, ma anche doppio, verrebbe da dire, quale in effetti è.

Si tratta di una retrospettiva che attraversa tutta la carriera di Guarienti, pittore e scultore straordinario che, partito nel dopoguerra da un rifiuto dell’arte astratta per sposare il realismo, poi però si cimenta nella geometria, nella natura morta, in sperimentalismi vari, nel surreale. "Un’arte mentale” è l’etichetta che gli assegna Sgarbi stesso, che della mostra è anche il primo ispiratore. .

Le opere di Guarienti stanno alla fine del lungo e impegnativo percorso storico del castello e questo non aiuta a gustarle ed apprezzarle come meriterebbero, perché ci si arriva sfiniti. D’altra parte non si può evitare di appropriarsi dell’intero scrigno, all'interno dello storico edificio, sulla parabola della città e della dinastia, gli Este, che su di essa investirono ambizioni di grandeur, passione per la bellezza, megalomania e, naturalmente, autocrazia. 

Scoprendo che Ferrara, che non è una città romana, ma gota, in qualche modo è anch’essa, come l'opera di Guarienti secondo Sgarbi, un prodotto mentale. Tant’è vero che l’ultima “addizione”, l’ultimo ampliamento, quello di Ercole I, fu in gran parte velleitaria. Più sulla carta che nei fatti. Una grande idea incompiuta.

Ottima base per visitare Ferrara è lo Student's hostel estense in Corso Biagio Rossetti a due passi dall'imbocco di Corso Ercole d'Este, col pavè, gli edifici istituzionali e veri e propri gioielli come Palazzo Gulinelli, tutto in cotto, elegante e caldo. Restaurato dopo il sisma del 2012, ci strappa un "Meno male che abbiamo i terremoti!" tanto ne siamo estasiati.

Una incauta uscita. Come espiazione ci imporremo in serata una pessima piadina a prezzo sproporzionato nel cortile del Palazzo della ex-Borsa, sempre in Corso Ercole. Ovattato e riscaldato di giorno dal suo suggestivo lucernario, di sera si trasforma in confluenza della movida.

Successivamente, un plus di colpa ci conduce alla visione di Il piacere è tutto mio al cinema parrocchiale San Benedetto, situato in una traversa di un Corso Po davvero terreo nella sera domenicale. Emma Thompson nella parte di una anorgasmica anziana signora che punta al riscatto in zona Cesarini col bellissimo Daryl McCornack è giusto, come la presentano i manifesti, una favola. Meno credibile però di Cenerentola.

All'andata no; al ritorno invece c'è un bel diretto per Cesena nel pomeriggio senza cambio a Bologna. 


venerdì 25 novembre 2022

IL PROF NO VAX DAVIDE TUTINO A SAVIGNANO PER UNA LEZIONE SULLA LIBERTÀ (E ANCHE PER IL SUO ROMANZO FANTASY INTITOLATO "IL MAGO DEL LAGO DEL DRAGO" DOVE PURE IL TEMA CARO DELLA DISOBBEDIENZA HA UN RUOLO IMPORTANTE)

Sicuramente è  stato un Davide Tutino, il prof testimone della galassia no vax, molto diverso da quello conosciuto attraverso le interviste con i media, che so, Piazza pulita: in quelle occasioni era netto, immediatamente comprensibile e controvertibile. Quello invece di ieri sera 24 novembre 2022 nella saletta del bar del Seven Sporting Club, invitato dal factotum dell'istituzione sportiva savignanese Christian Brigliadori, appariva più scivoloso e difficile da agguantare. Per dirne una: non ha mai pronunciato la parola vaccino, e neppure mascherina. Banditi con metodo termini come sottomissione o totalitarismo del Tutino braveheart della stagione pandemica ormai alle spalle. 

Al pubblico che non ha lasciato una sedia vuota, a ennesimo merito di Brigliadori e del suo fiuto per il pensiero che mobilita, ha parlato di libertà. Un tema da far tremare i polsi, ma che, vax o no vax, per un prof quale Tutino è (crediamo reintegrato dopo l'allontanamento senza stipendio per il rifiuto, formula sua, di "farselo mettere dentro", lo Pfizer naturally, e la decisione di trasformarsi in contestatore totale della politica di contrasto al mordo) è come la farina per un fornaio. In qualche modo non solo è la sua materia prima, ma anche possiamo facilmente presumere che poco o tanto se ne porti addosso sempre un po'  anche quando non è in classe. 

E noi l'abbiamo ascoltato come si ascolta un prof. Tutino ha il merito di pesare ogni parola prima di consegnarla all'auditorium. Era così, del resto, il Tutino televisivo, altrettanto quello savignanese.  Solo molto meno politico, molto più universale, molto più lontano dal qui e ora della polemica giornalistica: probabilmente un Tutino nel habitus in cui sta più a suo agio.

Anche se il vizio (parrebbe di ascendenza pannelliana) della disobbedienza non l'ha perso. Per lui il Covid-19 è stato come una sorta di "chiamata". Una disgrazia, certo, quella di essere stato espulso dalla scuola senza stipendio. Ma anche la contingenza in cui, come avrebbe detto Alessandro Manzoni, Dio l'ha guardato.  E anche i media. Ancora sta seguendo questa stella. 

Per esempio ci ha confidato di "avere violato la legge contro le sanzioni alla Russia regalando qualcosa all'ambasciata" al fine di contestare le medesime "imposte da Europa e Usa perché le sanzioni sono contro la Russia ma anche contro di noi e a vantaggio degli americani". E lì, però, in questo nuovo cimento, noi lo lasciamo cordialmente. Preferendo  concentrarci sugli ucraini e sulle sofferenze feroci che subiscono a causa di un despota. Che sulla libertà non ha nulla da insegnare.

martedì 15 novembre 2022

ALESSANDRO DI BATTISTA A RUOTA LIBERA A SAVIGNANO SUL RUBICONE PER IL SUO LIBRO DI VOCI CONTRO IL SISTEMA OVVERO INTERVISTE AD ALESSANDRO BARBERO, TONI CAPUOZZO, ILARIA CUCCHI, MONI OVADIA, BARBARA SPINELLI E MARINA CONTE VANNINI. INTELLETTUALI E CITTADINI ORA OSTINATI ORA CONTRARI O TUTT'E DUE. TUTTI A MODO LORO ALTER EGO DELL'AUTORE

Ora “sono giornalista e scrittore” Alessandro Di Battista anticipa nella serata tutta per lui alla Sala Allende di Savignano sul Rubicone sabato 12 novembre 2022 invitato da Christian Brigliadori di Around Sport per la nuova serie di incontri con personalità scomode (o presunte tali) intitolata Il Centro del fiume. Poi però del suo ultimo libro, Ostinati e contrari: Voci contro il sistema, Paper First, non parlerà: a parte l’invito a comprarlo (“Non vivo d’aria...”). Al folto pubblico squaderna solo, chiamiamolo così, il Di Battista pensiero.

Qualche frammento: “La democrazia diretta è stata demonizzata, ma un giorno vedremo quella rappresentativa come oggi la monarchia assoluta” (Casaleggio docet) - La stampa italiana non è libera” perché tutta controllata da potentati economici No alle correnti nei partiti (“sono roba da Pd) - Vade retro Draghi (che, per dirne una, “con l’improcedibilità ha superato i governi Berlusconi”) - Con questa opposizione Giorgia Meloni governerà nei prossimi 35 anni”Tra Draghi e Meloni corre poca differenza e i rave servono solo ad oscurare le cose che Meloni non può fare...” - Nel governo giallo-verde (Conte 1) “per colpire i Cinquestelle hanno contestato Salvini” - Che il 25 settembre Conte, che non mi ha chiesto di candidarmi”, abbia recuperato, è indubbio, ma bisogna capire dove sono andati i sei milioni di voti persi” “Il conflitto d’interesse riguarda tutti, non solo Berlusconi”: anche le banche, i giornali, i sindacati, il Pd naturalmente - Il Governo Draghi fu un compromesso al ribasso”, oltre al fatto che “a Draghi faceva schifo fare il presidente del Consiglio” Mai avrei immaginato che avrei avuto nostalgia della Prima Repubblica”.

Al pubblico che plaude, pur senza esagerare, regala perfino un mea culpa. Purtroppo non per i decreti Salvini contro gli immigrati, ma per aver “criticato eccessivamente Angela Merkel, perché non avevo capito che tentava di rafforzare politicamente l’Ue”. Che, ahinoi, “è una colonia Usa” e che sostenga l’Ucraina ci può pure stare , ma “andiamo a vedere la genealogia della guerra?.

Alcune dietrologie sono colorite ed estreme: 1) “Le interviste dei politici sono dei pizzini interni alla classe politica e servono agli intervistati solo per posizionarsi”; 2) Secondo me sono stati i britannici a far esplodere il North Stream che avrebbe tagliato fuori Ucraina e Polonia dal gas...”; 3) “In questo paese se sei contro Nato e Israele è difficile che arrivi a posti apicali”; 4) “Le sanzioni (antirusse, NdR) servono (agli Usa, NdR) a dividere l’economia europea da quella Russa”

Nessun riguardo, coerentemente, per i padroni di casa: “Il Pd deve sparire come il partito socialista di Hollande: se sparisse sarebbe un bene per il paese!” e “Bonaccini? Ma non c’è niente di meglio?

Vano il tentativo di sfilacciare il tornado con qualche tiepida obiezione. La serata è tutta di questo Di Battista ex-viaggiatore nel sud del mondo, poi prestato alla politica per una sola legislatura, per allontanarsi infine da essa, e dal movimento di Beppe Grillo, quanto basta per poter dire che “a me non manca quel Palazzo, preferisco una serata del genere, perché quel Palazzo è traditore: ti fanno credere che quella sia l’unica realtà e restare lì dentro coi piedi per terra è complicato: ho visto tanti parlamentari entrare con le migliori intenzioni diventati arredamento del luogo...”

Nel libro c'è un giornalista promettente. Solo rinunciasse di più ad essere Di Battista...

ASCOLI PICENO LA SI ABBRACCIA LETTERALMENTE IN DUE GIORNI DI VISITA. RACCOLTA NEL CERCHIO DELLE SUE MURA E DEI DUE FIUMI CHE LA CIRCONDANO QUASI INTERAMENTE SI PRESENTA COME A MISURA D'UOMO PER ANTONOMASIA

Palazzo Merli, Piazza S. Agostino

Il treno per raggiungere da Cesena Ascoli Piceno si consiglia nonostante le quattro ore di regionale veloce a causa di un’attesa di mezzora ad Ancora per il cambio. La cittadina marchigiana di appena 50 mila abitanti si presta infatti ad una visita a piedi essendo principalmente chiusa nel cerchio delle sue mura storiche, di cui poco è rimasto, delle relative porte e dei suoi due fiumi. Alla stazione è inoltre prossima la tappa del tour che collega culturalmente la città marchigiana alla Romagna. Si tratta del Forte Malatesta, una struttura eretta dal poco amato capitano di ventura Galeotto Malatesta e poi sottoposta a svariate trasformazioni ultime delle quali carcere e, oggi, sede di mostre. In particolare un piccolo museo con reperti della Ascoli alto-medievale: goti e longobardi. 

Certo, richiedendo la visita della città almeno due giorni, meglio depositare prima di tutto i bagagli in un B&B del centro storico (per esempio, Il Picchio, via Mercadante 45, gestito dalla simpatica Rosilla). Lo si raggiunge dalla stazione con la navetta gratuita. Da lì due passi e siete nel cuore pulsante della città rappresentato da Piazza dell’Arringo e Piazza del Popolo dove magari concedersi subito una sosta per un caffè all’anisetta nel locale del recente L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni con Scamarcio e Porcaroli nel cast.

Sulla bellezza del centro lasciamo alla vostra curiosità e al vostro impareggiabile estro di flaneur. Suggeriamo solo la vicina chiesa di Santa Maria della Carità (piazza Roma) benché possiate frugarla nelle sue volte e cappelle e nella sua quadreria solo dall’ingresso in quanto, forse come retaggio controriformistico, ci si prega e basta (“adorazione perpetua”, si dice), ma è un barocco mozzafiato.

Più avanti, lungo il decumano che in pratica corre dalla Stazione e dalla Porta Maggiore e taglia la città fino alla Porta Cecco d’Ascoli, direzione Roma, c’è, in Corso Mazzini, la Galleria d’arte Contemporanea Licini, dove al tempo della nostra visita era in corso una mostra di foto di un Carlo Verdone sorprendentemente turneriano (squarci d’infinito con cieli in subbuglio), pittori e scultori d’oggi naturalmente e pure una bella sezione di foto di attori di Emanuele Scorcelletti. Attenzione, riguardo alla sera ad Ascoli Piceno c’è una multisala nel quadrilatero del quartiere oltre Ponte nuovo, uno dei tre che scavalca il fiume Tronto, ma ce n’è un altro intramoenia, Nuovo Cineteatro Piceno, alle spalle della Pinacoteca in piazza del Popolo direzione Porta Torricella. Evidentemente l’immancabile ex-cinema parrocchiale evolutosi.

Non perdetevi un paio di camminate suggestive: una, magari notturna, che segue l’emiciclio murario che va dal Ponte nuovo a Piazza Cecco d’Ascoli, l’altro extramoenia l’indomani mattina con begli scorci di frammenti della città che parte da Porta Torricella a sud e, scavalcato il Castellano, affluente del Tronto, col quale circonda su tre lati la città, compie un cerchio fino a Forte Malatesta e alla zona stazione. Per una visione dall’alto e una maggior percezione del suo retaggio di città turrita, attraversate invece il ponte Augusteo a nord e salite fino alla statua del Cristo Redentore che di notte vigila luminoso sulla città. Che, peraltro, anche dopo il salotto serale non manca di una sua placida vitalità notturna.

Una visita ad Ascoli Piceno è importante anche per ricordarci che tutto sommato non siamo alla canna del gas. Dal terremoto del 2016 sulla città sono piovuti da fonti molteplici soldi e ancora soldi per mettere in sicurezza. Per gli interessati, magari architetti o geometri, la lettura dei cartelli di cantiere disseminati ovunque coi relativi ponteggi fa quasi da corso di aggiornamento, o almeno ripasso. 

Un simpatico signore ex-bancario, che tanti consigli e suggerimenti ci ha regalato per impiegare al meglio la nostra visita nel corso di una lunga pausa dal suo impegno come volontario in Piazza Arringo, dove quella mattina partiva e arrivava la mezza maratona, stimava in un 50% gli interventi di chi ci “ha marciato”. Cioè ha sfruttato il sisma come scusa. Altri avanzano stime più sapute e malevoli. Resta che la città è di pietra viva punteggiata talvolta con graziosi inserti di coccio e altri frammenti lapidei storici. In un modo o nell’altro va tenuta su. 

giovedì 3 novembre 2022

PROCEDE LA CORSA PER LA CREAZIONE DI UN DISTRETTO DEL BIOLOGICO A CESENA. LA CONSULTA PER L'AMBIENTE CHIEDE ALL'AMMINISTRAZIONE COMUNALE UNO STUDIO DI PRE-FATTIBILITÁ. ATTUALMENTE L'UNICO DISTRETTO DEL BIOLOGICO ROMAGNOLO STA NELLA VALLE DEL BIDENTE E DEL RABBI

Il seme dell'Altissimo, E. Isgrò, Milano

Prosegue la marcia amministrativa che punta a creare a Cesena un distretto del biologico. La riunione della Consulta ambientale presieduta da Maurizio Pascucci del 27 ottobre ha confermato il proprio sostegno all’iter partito il 2 aprile 2021 con una mozione del Partito Democratico in Consiglio Comunale a favore di una “gestione biologica delle aree verdi pubbliche e private” e della “promozione delle produzioni agricole biologiche nel comune di Cesena”. Fece seguito una delibera del consiglio stesso un paio di giorni dopo. A larghissima maggioranza. 

In seguito in seno alla giunta del sindaco Enzo Lattuca è maturata la posizione critica dell’assessore allo sviluppo economico Luca Ferrini, che alle elezioni del 25 settembre è stato candidato con il terzo polo di Calenda e Renzi, con la motivazione che si tratta di un “progetto divisivo” e che più auspicabile sarebbe un “distretto del cibo” allargato ad altri comuni e sviluppato in sinergia con altri enti territoriali. La consulta, però, a giugno 2022 ha ribadito di stare col bio. Presa di posizione confermata qualche giorno fa con anche l’invito formale all’amministrazione comunale ad affidare ad esperti di biodistretti l’incarico per uno studio di pre-fattibilità. 

 L’opzione a favore del distretto del biologico è sostenuta da passi legislativi a livello nazionale e regionale. Cioè dalla legge approvata dal governo Draghi del 9 marzo 2022, attualmente in attesa dei decreti attuativi, e dal progetto di legge regionale depositato dalla verde Silvia Zamboni in Emilia Romagna il 15 giugno 2021, adottato in seguito dalla maggioranza e in attesa del completamento dell’iter di quella nazionale per decollare coi relativi finanziamenti. Va peraltro rilevato che, come sottolineato da Silvia Zamboni stessa, in Romagna già esiste un primo distretto del biologico: quello della valle del Bidente e del Rabbi, battezzato “Romagna distretto biosimbiotico” e coinvolgente “49 aziende agricole e i comuni di Meldola, Civitella, Santa Sofia e Premilcuore”. Mentre in Emilia nel 2018-19 sono partiti i due “biodistretti” dell’Appennino bolognese e delle Valli del Panaro.

Il distretto del biologico è circoscritto territorialmente (nelle Marche addirittura si avanza l’ipotesi di una dimensione regionale) ma si tratta essenzialmente di un’area economica nella quale il non utilizzo di fertilizzanti chimici e fitofarmaci, insieme ad altri indicatori inerenti la sostenibilità ambientale e, naturalmente, la salute per quanto riguarda la prevenzione primaria, sta alla base della catena dei tre settori economici primario, secondario e terziario. Coinvolge quindi diversi rami produttivi,  quello alimentare prima di tutto. Riguardo all’Emilia Romagna l’incentivazione del biologico rientrerebbe nel mandato 2020-25 che punta alla copertura del 45% della Sau (Superficie Agricola Utilizzata) regionale “con pratiche a basso input di cui oltre il 25 % a biologico”. 

 Le imprese bio in Italia sono in crescita costante e già nel 2019 viaggiavano verso le 80 mila. Nel primario sono in testa le regioni del Sud, nel secondario e terziario Lombardia ed Emilia-Romagna. Che con le sue oltre 5000 aziende agricole, zootecniche ecc. è la prima del settentrione.

martedì 25 ottobre 2022

A ROVIGO UNA MOSTRA CHE ILLUSTRA LA GUERRA ANZI LE GUERRE DEL NOVECENTO ATTRAVERSO LO SGUARDO DI UN GRANDE DEL FOTOGIORNALISMO, ROBERT CAPA, MORTO QUARANTENNE SOPRA UNA MINA ANTIUOMO IN INDOCINA

Guerra e ancora guerra nelle trecentosessantasei fotografie di Robert Capa, alias di André Friedmann, fotografo di guerra, fondatore di Magum photos, l’agenzia che unì e unisce i grandi del fotogiornalismo. Dal 8 ottobre in esposizione a Rovigo, Palazzo Roverella, fino al 23 gennaio 2023. Un’ora e cinquanta di treno da Cesena. Civili in fuga, istanti di morte, macerie, sguardi di prigionieri, brevi intervalli di pace prima, dopo, durante, cadaveri, sbarchi, euforia di vittoriosi, croci, trincee. Capa vive da fotoreporter le principali tragedie belliche del primo novecento, prima di saltare su una mina nel Viet-Nam ancora francese (1954). Questa foto della Kiev della Seconda Guerra mondiale non è la più toccante o impressionante delle tante scattate in Spagna, Italia, Normandia, Berlino, Cina per puro fine documentario. L’obbiettivo di Capa non punta mai all’opera d’arte: per stare al centro degli eventi si paracadutava letteralmente nell’occhio del ciclone, cioè del conflitto. Fornisce però bene l’idea del tempo che si ripete. In tutti i sensi: sono una quindicina i giornalisti uccisi in Ucraina, ma probabilmete molti di più se si considerano i caduti da arruolati nelle file di Kiev. Una mostra al Media Center di Leopoli li ricorda

sabato 22 ottobre 2022

IL PALAZZACCIO AL QUARTIERE FIORITA SARÀ SALVATO CON PIÙ DI 350 MILA EURO UN DUE ANNI. 58 MILA SUBITO. PER IL RESTAURO FUNZIONALE CI VORRANNO ALTRI 5-6 MILIONI

Per tenere in piedi il Palazzaccio nel quartiere Fiorita il Comune di Cesena intende stanziare più di 350 mila euro: cinquantotto mila già assegnati alla ditta Casadio di Ravenna e altri 300 mila nel 2023. Lo ha comunicato l'assessore ai lavori pubblici e vicesindaco Christian Castorri in commissione cultura ed è una bella vittoria per il comitato impegnato nella preservazione e nel recupero nel cinquecentesco manufatto legato alla battaglia cosiddetta del Monte tra risorgimentali e pontifici del 20 gennaio 1832. Non mancano però altre soddisfazioni morali per il gruppo guidato da Cesare Benedetti e Antonio Dal Muto che per questo risultato si impegna con particolare tenacia da almeno un biennio. Val la pena di ricordare in particolare che appena nel 2020 il Palazzaccio rischiò di essere trasformato in edilizia residenziale col beneplacito, nella sostanza, del Consiglio di quartiere Fiorenzuola e perfino, benchè solo in parte, di Italia Nostra. L’assessore inoltre ha riconosciuto che la battaglia del Palazzaccio, quella finalizzata a preservarlo, è diventata vincente anche perché ha unito tutte le forze politiche cittadine. L’evento, ha sottolineato, non è frequente. Ci vorranno, ha aggiunto Castorri, altri 5-6 milioni di euro per il restauro funzionale. Per farne cosa ancora non si sa. L’assessore Carlo Verona non ha avanzato alcuna ipotesi al riguardo. A parte l’auspicio che sia coinvolta la facoltà di architettura.

mercoledì 12 ottobre 2022

UN WEEK END A REGGIO EMILIA DA CESENA TI REGALA L'ILLUSIONE DI VIAGGIARE LONTANO TANTO È LA CITTÁ PADANA GENEROSA E SORPRENDENTE

Cultura, cibo e gentilezza sono la trimurti di un week end a Reggio Emilia. Che rispetto a Cesena sta all’interno di quel raggio magico di 150 km di treno e/o autostrada tale da rendere questa città al centro della Pianura padana e prevalentemente percepita come passaggio verso mete più attrattive come Bologna o Milano, letteralmente a portata di mano. Entrandoci però, e lasciandovi alle spalle la stazione e quindi imboccando la pedonale via Emilia per immergervi nella sobria quotidianità di un ordinario sabato cittadino con le bancarelle e le chiacchiere e i ristoranti che in questo ottobre ancora invadono strade e piazze, la città vi inghiottirà talmente con le sue offerte, il buon gusto della sua accoglienza e, vorremmo dire, anche con la sua generosità da domandarvi alla fine del tour: ma davvero siamo stati tanto lontani da casa in così poco viaggiare?

Partiremo dalla fine: alla domenica mattina, ore 10,30, alla Collezione Maramotti, fuori da Porta Santo Stefano, bus E (chiedere all’autista la fermata giusta), inizia la visita guidata di decine di sale e 200 opere raccolte da un imprenditore, Achille Maramotti, e gran collezionista di arte dal secondo dopoguerra ad oggi. Si parte dall’informale e dagli artisti, come suggerito dalla guida, che “hanno fatto la guerra”, e si approda alla contemporaneità col suo misto di denuncia, trasgressione, serialità, costruttivismo, ibridazione, provocazione e tant’altro. Se ne esce esausti e felici. Inevitabilmente con una fame... una fame...

Per cui, se rientrate nella cerchia storica attraversando il ponte sul Crostolo, che una volta tagliava la città ed oggi con il suo letto verdeggiante sostanzialmente la separa dalla periferia nord- orientale direzione Parma, il consiglio è di infilarvi decisi nell’Osteria Monzermone, nell’omonima viuzza.

In un comune mezzodì domenicale, serviti senza smancerie, ma impeccabilmente e a prezzi più che onesti, bevendo lambrusco e chiudendo con torte della cucina, quadri e ancora quadri alle pareti, potrebbe accadervi di conversare con allegria su tanti piacevoli argomenti con commensali e habitué come accadeva una volta. Anche se il miracolo forse potrebbe non stupirvi più di tanto perché a Reggio Emilia è così: la gente è gentile, ti spiega, ti aiuta, ti guida, ti racconta...

Quello che ha di meglio Reggio Emilia te lo dona: la Collezione Maramotti è gratis. Come pure le esposizioni stabili o temporanee presso il Palazzo dei musei, un autentico museo di musei; e gratis (offerta libera) è pure la mostra su Augusto Daolio, la voce inconfondibile dei Nomadi, morto trent’anni fa e restituito a noi nei tre piani del modernissimo, pur tra tanto antico, Spazio Gerra. Un grande italiano, Daolio: pittore, musicista, poeta, utopista. La mostra ce lo regala letteralmente in tutta la sua ricchezza di creativo e sognatore. E inconfondibilmente reggiano, verrebbe da dire.

Sì, perché la cifra di questa città, la cui compiuta natura multietnica la mastichi in ogni sua parte (con tanto di querelle sul tema), crediamo sia proprio di mostrarsi sonnacchiosa e placida, per poi però sorprenderti per la disarmante naturalezza con cui ti si rivela aperta al nuovo. Non è necessario allungarsi (bus 9) fino ai ponti di Calatrava e alla stazione Mediopadana. La mostra dedicata alla pittura e alla fotografia e alla musica del poliedrico  Yuval Avital, intitolata Membrane, lungo la via Emilia, a poco più di mezzo km dalla stazione, crediamo non avrebbe trovato location più adatta che nella quieta Reggio Emilia e nelle sale recuperate cinque-settecentesche dei Chiostri di San Pietro. Le opere dell’artista israeliano ti trafiggono di angoscia al piano terra, ma poi ti elevano in una specie di sposalizio uomo-natura che sa tanto di sogno, di utopia e anche un po’ di sfida. Un po’ come se la città ti sussurrasse in questa mostra: qui almeno puoi immaginare, se non illuderti, che “tutto andrà bene”.

La visita alla Basilica della Beata Vergine della Ghiara, presso l’ostello della Ghiara, non lontano da piazza duca d'Aosta, ma in centro storico, che è, l'ostello, un porto di mare di viaggiatori e libertari e, come dicono i gestori, di “giovani di tutte le età”, nel quale potete avere tutto, colazione, aperitivo, pranzo, cena, stanza a poco prezzo, lavanderia e... la solita gentilezza che ti conquista... Dicevamo, la Basilica della Beata Vergine della Ghiara sta vicino all’omonimo posto per trascorrere la notte, e il tour della città potrebbe partire proprio da lì. Ve la consigliamo, perché vi accoglie con una quadreria secentesca di grande suggestione. Tempi cupi, ma, come gli storici dell’arte insegnano, di indubbio sperimentalismo artistico...

venerdì 7 ottobre 2022

PRODIGY KID È LA STORIA PER IMMAGINI E FORME E INSTALLAZIONI Di DUE VISIONARI UNITI DALLA INTERPRETAZIONE RIVOLUZIONARIA DEL MOSAICO INTESO COME RICOMBINAZIONE LIBERA DELL'ESSERE E DELL'ESISTERE. FINO AL CONFINE DEL DISSACRANTE ED INEVITABILMENTE OLTRE

In fondo la mostra Prodigy Kid, inaugurata oggi 7 ottobre al Mar di Ravenna all’interno della ravennate Biennale di Mosaico Contemporaneo, che è disseminata in un pulviscolo di sedi ravennati e oltre, non è altro che una storia. 

Quella di due artisti, Francesco Cavaliere e Leonardo Pivi, ciascuno col proprio percorso, astratto e concettuale uno, decisamente più figurativo l’altro, che convergono in opere a quattro mani spinti dal condiviso gusto dell'assemblare e ricombinare materiali, oggetti, tecniche musive varie, simboli e, inevitabilmente, a seguito di qualcosa di etichettabile come una sorta di colpo di fulmine artistico tra anime gemelle e complementari, le loro stesse creatività.

La parola chiave per entrambi, singolarmente e insieme, è ibridazione, mentre Galeotto del loro fondersi è stato, appunto, il Prodigy Kid. Che è un ibrido per eccellenza: in pratica un mostro in senso classico, cioè un essere forse ispirato da qualcosa di reale mezzo millennio fa, ma nella sostanza frutto di quella elaborazione visionaria antica e pure attuale, che ama amalgamare in un’unica entità maschio e femmina, animale e umano, alato e terreno. Irresistibile evidentemente per entrambi.

Prepararsi pertanto nella visita ad un crescendo di spiazzamento, perché i due artisti, benché lontani dal punto di vista generazionale, sul solco della rispettiva e personale capacità di trasgressione ci conducono prima in solitaria poi in coppia a soluzioni formali decisamente, come si suol dire, out of the box. È un'arte che gioca e punge.

Al termine Prodigy, perché appunto la mostra è anche una questione di parole, gli artisti assegnano un senso del tutto nuovo rispetto al monstrum antico: quello cioè di un’arte che rompe argini, convenzioni e confini. E quindi sorprende, inquieta, interroga dall’inizio alla fine. Provare per credere. Fino al 8 gennaio 2023.

martedì 20 settembre 2022

FORMIGNANO RIVISITATO DAL WORKSHOP SVOLTOSI A GIUGNO 2022 A CESENA ED ESPOSTO A VILLA TORLONIA, SAN MAURO PASCOLI, IL 16-18 SETTEMBRE, DIMENTICA IL LAVORO DI CHI ALLA MEMORIA E AL RECUPERO DELLA STAGIONE MINERARIA DI CESENA STA DEDICANDO DA DECENNI RICERCHE E STUDI SENZA I QUALI FORSE DI FORMIGNANO OGGI NEPPURE SI PARLEREBBE

Dopo quasi un ventennio di fare e disfare la tela di Penelope del recupero del borgo minerario cesenate di Formignano nella frazione di Borello vive un nuovo inizio grazie al workshop internazionale svoltosi a Cesena nel giugno 2022, le cui conclusioni sono state esposte il 16-18 settembre a Villa Torlonia, San Mauro Pascoli, in occasione della Festa dell’architettura 2022. La visione minimalista, però, che ha ispirato il lavoro del gruppo di studenti della facoltà di architettura e professionisti di chiara fama, in quanto tutta affidata al ruolo precipuo delle due componenti del sito rappresentate dai resti degli edifici e dalla incombente e pervasiva vegetazione che ormai li annichilisce, non può soddisfare. 

Presumibile che pochissimi cesenati avranno visitato la mostra nella sala delle Tinaie, perché l'etereo assessorato di Cesena, che pure ha patrocinato l’evento, non l’ha poi sostanzialmente pubblicizzato, nonostante Formignano, benché periferico, stia tuttavia particolarmente a cuore ai cesenati. Nel 2019 al suo recupero gli hanno assegnato il secondo maggior numero di voti nella graduatoria degli interventi pubblici da finanziare su indicazione dei cittadini. 

Lascia, comunque, “esterefatto” Davide Fagioli, uno dei massimi attivisti della Società di Ricerca e Studio della Romagna Mineraria, nata nel 1987 e che da trentacinque anni tiene viva la memoria di quando Cesena era capitale dello zolfo. Giudizio lapidario: nello studio, che è nella sostanza il risultato di un raffinato brainstorming, mancano le persone”. A rigore non è vero: gli architetti hanno ben presente che quelli sui quali e nei quali si sono cimentati per immaginarne qualcosa di nuovo erano luoghi di fortissima valenza antropica. Non sono però andati oltre questa, chiamiamola così, presa d’atto.

Come anticipato, per gli autori del workshop le idee intorno a Formignano devono scaturire dal dialogo e anche dal conflitto dei due ingredienti base sopravvissuti del sito: i ruderi del borgo cadenti e sfondati dal nevone del 2012 presso cui s’apre la discenderia conducente ai cunicoli da cui estrarre lo zolfo (affondano fino a seicento metri sviluppandosi su ventidue livelli in una rete che raggiunge la frazione di Tessello a 4 km dal Formignano). E la vegetazione che dal 1962, anno della chiusura dell'impianto, li sta divorando. Una visione minimalista, come detto, ma anche un po' manichea: i primi sarebbero per i progettisti quel che resta di un lavoro disumano, la seconda rimedia con una pazienza da assecondare e da cui lasciarsi guidare. Un'impostazione sostanzialmente fuorviante.

Il ruolo dell’umano a Formignano, infatti, non è rappresentato solo da quello scontato delle miniere: vita dura, breve e magra e ambiente sfigurato o anche avvelenato. Da guarire. C’è anche la specificità cesenate espressa dalla per nulla disumana narrazione della stagione delle miniere da parte di chi con ricerche, studi, viaggi, scambi epistolari, visite guidate, vere e proprie spedizioni d'oltremare dove i minatori della Romagna sono poi emigrati per scavare in vene economicamente più competitive e farsi sfruttare anche di più, sta dedicando da decenni tempo, passione e competenze, non solo per dirci come si stava e come si lavorava a Formignano. Bensì anche per ricostruire una rete di “addentellati”, per usare un termine caro al più rappresentativo studioso del sito, Pierpaolo Magalotti, autore di Paesi di zolfo del 1998, cioè di relazioni che legano la Cesena del tempo, in cui il metalloide era nel mondo una risorsa centrale, a vite, imprese, passioni, valori, generazioni passate e presenti, nazioni e addirittura continenti. 

Questo ingrediente, diciamo pure, storiografico è stato tenuto fuori dal workshop, come ci confermano gli stessi storici cesenati della società mineraria coinvolti solo per aprire le porte del sito e guidare al suo interno gli studiosi del terzo millennio. E il vuoto risalta, anzi strilla, nell’allestimento stesso della mostra. Tanto più se si considera che il sopracitato lavoro di ricerca ha nella massima istituzione cesenate e nel suo patrimonio documentario il suo principale nutrimento. Ci riferiamo alla Biblioteca Malatestiana.

lunedì 12 settembre 2022

LA MOSTRA TEMPORANEA SULLA MARCIA SU ROMA A PREDAPPIO MERITA DI ESSERE VISITATA MA SE ANNACQUI IL FASCISMO SUL TEMA DELLA VIOLENZA IL GIOCO DIVENTA FACILE PER TRASFORMARLO IN UN EVENTO MENO PERNICIOSO DI COME FU


La mostra O Roma o Morte a cura di Franco D’Emilio e Francesco Minutillo visitabile nel paese natale di Benito Mussolini, Predappio, Fc, fino al 4 novembre al venerdì, sabato domenica e festivi non è apologia di fascismo, ma dal punto di vista storico esprime un difetto perfino peggiore. Giovedì 15 settembre se ne parlerà a Piazza pulita grazie ad una visita in loco dei giornalisti di Formigli e ciascuno potrà farsene un’idea. Il nostro appunto è questo: la mostra non pone nel dovuto e corretto rilievo la violenza sistematica delle squadre fasciste ai danni di tutto ciò che riguardava il movimento socialista, sindacale e associativo della sinistra di allora, e pure degli slavi, che scattò con una progressività incontenibile e mirata a partire dal 1921 ed in particolare dall’inizio del 1922.

D’Emilio, classe ’51, una vita ai Beni culturali, guidandoci da vero signore e competente di cultura e storia per la mostra ci convince in pieno sul valore documentario dei cimeli e comunque dell’allestimento complessivo e crediamo non sia piaggeria invitare a visitarla e perfino apprezzarla. Prima di giudicarla.

Non può però liquidare la questione chiave del colpo di stato del 27 ottobre 1922 che interruppe per un ventennio la vita dell’Italia liberale coll’argomentazione, riportata nei pannelli illustrativi e da lui stesso a noi ribadita, che a violenza rossa ne insorse per reazione e necessità una analoga nera, e che la turbolenza complessiva politica e sociale del dopoguerra giustificò un’azione fortemente repressiva per riportare ordine e, di conseguenza, fare poi cose buone.

La questione è molto più complessa e proprio per questo la mostra avrebbe bisogno di una stanza in più tutta dedicata alla premessa storica della Marcia su Roma, rappresentata appunto dall'azione liquidatrice ai danni di ogni opposizione al fascismo, che si scatenò sostenuta dai poteri forti di allora e, soprattutto, da esercito e carabinieri. È fuorviante, mistificatorio e sostanzialmente falso limitarsi ad affermare, più o meno, che “la forza (quella fascista) fu l’estremo rimedio al disordine sociale”.

Primo perché nella prima fase alla turbolenza (1919-21) con corollario di morti neri, bianchi rossi innocenti e pure soldati e carabinieri contribuirono anche i fascisti. Secondo perché i leader socialisti, per quanto ambissero, come dicevano, di fare come in Russia, erano tuttavia alieni dal ricorso alla violenza, anche se questa non mancò negli scontri: tendenzialmente non l’approvavano e i fatti dicono che ci misero molto a capire che solo con la forza avrebbero almeno potuto rallentare la catastrofe. Terzo, togliere dallascesa del fascismo il booster della sopraffazione fisica all’insegna appunto del O Roma o morte significa non solo edulcorare il fascismo ma anche precludere la comprensione dei disastri successivi: dal totalitarismo alla liquidazione mirata degli oppositori, dai massacri in Etiopia alle leggi razziali e alla guerra insieme a Hitler...

La mostra andrebbe insomma, da un lato, significativamente integrata. Dall’altro inquadrata in modo più amplio e onesto. Dopo di che, ma solo dopo, potrà partire per lidi più affollati di Predappio e contribuire alla creazione di una istituzione che manca: il museo storico sul fascismo. 

giovedì 8 settembre 2022

RIMINI DI ULRICH SEIDL RACCONTA L'EPICA DELLA SOLITUDINE ATTRAVERSO LE TRAVERSIE DI UN PERSONAGGIO CHE EPICO NON APPARE MA CI CONQUISTA



Rimini di Ulrich Seidl è un film sulla solitudine. Certo, il protagonista, Ritchie Bravo, non è un giovanotto e ha vissuto lune più smaglianti come cantante da balera e sex bomb, ma questo aspetto declinante della sua figura costituisce solo un ingrediente aggiuntivo. Si sa, del resto, che anzianità e solitudine sono spesso ancelle.

Il fatto è però che in Rimini tutti sono soli con la propria pena che materialmente può consistere nella cura della madre inferma, nell’inseguimento vano in età avanzata dei miti della gioventù o semplicemente in un deficit di sesso (perché la libido non muore mai) tamponato come riesce. E come gli altri Ritchie (Michael Thomas) è solo: solo in compagnia del suo arraffare denaro da qualsiasi fonte sfruttabile, onesta o meno, propria o altrui. Perché tutto è per lui all’incanto: la propria appannata celebrità, le sue indubbie qualità canore, la sua residua potenza sessuale: il tutto al servizio di un mondo di solitudini...

Ma che c’entra Rimini? In nulla, a parte uno sfondo che le appartiene, ma tutt’altro che in esclusiva, cioè il vuoto invernale dei luoghi della festa estiva. Non fornisce il mare, che pure ruggisce fuori campo e oltre un grigio e una nebbia implacabili, e che non vediamo mai. Neppure gli scorci suggestivi della Rimini storica. Rimini, se c’è, svolge un ruolo unicamente attraverso quella terra di nessuno rappresentata dalla fascia attrezzata, che separa la città dalla spiaggia, spopolata d'inverno ad eccezione di perse e dimenticate anime di migranti fuggiti da pene peggiori. Lì si svolge la vita di Ritchie tra performance canore, sessuali, commerciali e altro di molto meno nobile finchè...

Rimini per caso verrebbe da dire. Fosse Cesenatico e Marina di Massa non cambierebbe nulla. Non una Rimini brand,  ma una rimini con la erre minuscola, scarnificata come l’identikit di un volto. Neppure il fascino di una Rimini d’inverno. Quella striscia di riviera di cui sopra vive come schiacciata da un assedio: il mare, come già detto, da un lato, dall'altro le intemperie varie come in un mondo distopico che perseguita costantemente il nostro eroe, sempre in affanno, sempre all'inseguimento del reddito e della propria pena. 

Che tuttavia non è un eroe negativo. E il film stesso pare aprirsi ad un messaggio di speranza inatteso. Consigliasi la visione non doppiata...