A Milano lo chiamano Rimini, a Rimini quello che va e viene da Milano. Il protagonista dell’ultimo romanzo di Marco Missiroli, Avere tutto, Einaudi, è però soprattutto un romagnolo, perché la storia esonda dalla sua Rimini del passato e del presente a tutta la Romagna: da Montescudo a San Zaccaria, da Cesena a Cervia a Santarcangelo. Rimini soprattutto naturalmente, ma a modo suo il romanzo è anche un on the road sulla Renault 5 del padre, Nando, settantaduenne, ballerino sfegatato insieme alla moglie Caterina, defunta cinque anni prima. Nando pure è protagonista insieme al figlio romagnolo-milanese, Alessandro Pagliarani. Perché la storia si regge tutta sulla relazione tra i due.
Dicevamo della Romagna, ma una Romagna ruvida, spaesata, disincantata, “senza cagnara”, “fiacca”. Con scorci tipo “Chissà perché a Rimini i gabbiani non urlano mai”, nel quale certamente il lettore romagnolo non potrà che inciampare. Anche perché, ci assicurano, non è vero. Lo è però per Alessandro/Sandro/Sandrin che è tutto raccolto nella doppia fatica del confronto/scontro col presente, anche personale, e della raccolta dei frammenti del suo passato, quello riminese, quello di prima di passare all’università a Bologna e poi a Milano come pubblicitario, per rientrare quindi, e torniamo al presente, in patria. Restandoci in conseguenza di un richiamo che via via andrà sempre più dolorosamente manifestandosi.
Presente e passato vissuti sul filo del rasoio per via di un anelito di onnipotenza, come si suol dire, acquisito forse col latte materno. Nel quale cioè il lettore potrebbe pure individuare un che di squisitamente romagnolo. Anche per i tratti, come spesso accade, distruttivi. Di certo c'è che presente e passato sono entrambi sospesi tra passione e disperazione, malattia e riscatto: riscatto, però, senza palingenesi, senza nostalgia. Neanche della Romagna, della “Rimini dura con i timidi”.
Padre e figlio, però, si capiscono perfettamente, questo sì. “Gli confidavo tutto senza confidargli niente”. La tematica del romanzo in fondo è tutta qui: in questa intesa, in questo cedersi amichevolmente il testimone della vita...
Sequenza emblematica del tono e della visione che nutrono il romanzo è, per esempio, una di carattere molto laterale (scusate se non vi neghiamo la sorpresa della trama: basti che il libro si presta bene per una sceneggiatura, perché comunque è solida, ben scavata nel travaglio di Sandrin). Quella del ricordo dell’inumazione della madre. Vita e morte convivono, magari schiaffeggiandosi, in tutto il romanzo. Nel momento esatto in cui la bara viene infilata nel loculo, mentre tutti gli altri, in primis gli ex alunni della maestra e pittrice Caterina diventati grandi, sono lì intorno, il marito Nando sparisce.
Alessandro e l’amico prete Don Paolo lo ritroveranno in seguito rifugiato “dietro la cappella centrale”. Da dove Nando “aveva allungato il collo e aveva chiesto se la posa sarebbe stata a malta o a incastro”. Dopotutto anche la morte è una formalità.
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