UNA POLTRONA IMPEGNATIVA: CARLO VERONA,
NEO-ASSESSORE CESENATE ALLA CULTURA, DOVRÀ RIMBOCCARSI LE MANICHE PER
RESTITUIRE ALLA CULTURA CESENATE UN’IDENTITÀ PERDUTA
di Giuseppe Fabbri
di Giuseppe Fabbri
Sarà pure “onorato” dell’incarico Carlo
Verona, architetto, neo-assessore alla cultura della giunta cesenate di Enzo
Lattuca, ma la situazione della politica culturale della sua città appare
alquanto, come egli stesso puntualizza, “ingarbugliata” e avrà da fare. Centro
Cinema, Biblioteca Malatestiana, Bonci appaiono nel pieno di metamorfosi dal
destino confuso. Oltre che oggetto di critiche. E a ben vedere pure
su altre questioni, quali per esempio gli stessi Giardini Savelli, epicentro
della mini-movida estiva cesenate ma miseri di proposte culturali, c’è da
eccepire. Per non dire dell’area mineraria di Formignano, a Borello, che oggi crolla.
Eppure ieri sembrava ad un passo dal recupero.
Forse la questione più facile è
rappresentata propria dal Teatro Bonci, il lirico cesenate, il punto in cui le intenzioni
programmatiche del sindaco Enzo Lattuca sono più recise riguardo alla voglia di
cambiare, in particolare quando afferma che “andranno valutate attentamente
modalità alternative di gestione del Teatro Bonci”. Nessun cambiamento, in
realtà, si profila rispetto alla ormai diciottenne gestione del Bonci da parte
di Emilia Romagna Teatro Fondazione, di cui Cesena fa parte con Bologna, Modena,
Vignola e Castelfranco. Come facilmente deducibile dalla commissione
consigliare del 4 ottobre 2019 vertente sul cartellone 2019-20 del prestigioso
lirico cesenate. Il neodirettore (non proprio, dal gennaio 2017) Claudio Longhi
di Ert ha riconosciuto, a seguito di domande di consiglieri in particolare
delle minoranze, che l’insoddisfazione annosa da parte degli affezionati per il
livello delle proposte non è priva di fondamento. E di essersi pertanto
impegnato in un lavoro di “ricucitura e riequilibrio” all’insegna di un
criterio di pari trattamento di tutti i teatri della fondazione tanto riguardo
alla “qualità” quanto riguardo alla “tipologia” degli spettacoli”, puntualizzando
pure che “quando mi sono insediato ammetto che non era così”.
La situazione del Bonci è simile a
quella del Centro cinema – osservava appena un mese prima al riguardo Roberto Casalini,
ex-assessore cesenate alla cultura tra il 1975 e il 1985 rientrato nel Pd dopo
un breve divorzio- perché da quando si è affidato il nostro teatro a Fondazione
Emilia Romagna Teatro spendiamo gli stessi soldi per diventare servitori ed essere
costretti ad accettare gli spettacoli di Ert, che significa non poter decidere
chi far venire qui. L’insoddisfazione diffusa per il Bonci nasce proprio da
questo: dalla rigidezza del sistema che ci fa perdere spettacoli straordinari”.
E più o meno negli stessi giorni Franco
Dell’Amore, musicologo, autore di pietre miliari della storia musicale
romagnola e cesenate, esperto di operetta, varietà, folk, lirica e quant’altro
oltre che regista di eventi musicali e non a Cesena e nel mondo raccontava di
aver suggerito a Carlo Verona di passaggio per consigli nella sua casa-museo la
seguente idea “irrealizzabile a causa della mentalità”: “Cancellare la stagione
teatrale proponendo solo 2-3 cose da affidare a figure come la poetessa
Mariangela Gualtieri o il regista Romeo Castellucci (due big cesenati nel
mondo, NdR) e che siano di respiro internazionale”. Il Bonci è infatti digiuno
da anni di grandezza. Pago di riempire la sala e gli abbonamenti. Cambiare
strada può significare solo “portare a Cesena poche cose ma importanti, di
successo, prime nazionali, che solo il pubblico può portare; il resto, le
pièce, il concerto, il balletto, li si lasci organizzare ad altri, ai privati”.
Le risorse (umane) a Cesena non mancano. “Devi proporre cose basse e alte, ma non
puoi fare cose basse pretendendo che siano alte”.
Ma naturalmente Lattuca e Verona non
seguiranno quei consigli e il Bonci resterà in Ert, il primo dei sei teatri
nazionali secondo una graduatoria quali-quantitativa da cui dipende la
distribuzione del Fus. Come potrebbero dopo gli impegni solenni di Longhi?
Senza considerare poi le ragioni di budget (“Il Bonci costa un botto: solo
aprirlo, dico le porte, al pubblico se ne vanno 4-5 mila euro” ha detto Longhi
accompagnato da un moto di assoluta condivisione dell’assessore). E delle
poltrone: chi si figurasse Cesena in balia del potere di Modena (sede di Ert) e
attribuisse le ragioni di stagioni teatrali poco brillanti a questa sudditanza,
sbaglia, perché dal 2012 al 2016 la presidenza dell’associazione è stata occupata
da Daniele Gualdi, ex assessore cesenate dei sindaci Giordano Conte e Paolo
Lucchi, silurato nel 2011 da quest’ultimo e risarcito con Ert.
Una vera “nota dolente”, parole
dell’assessore, è rappresentata invece dal parco minerario lungo il Savio.
L’avvio del suo restauro e della sua valorizzazione in quanto testimonianza dei
tempi in cui Cesena e dintorni erano capitale mondiale dello zolfo, era lì,
pronto, finanziato. La precedente amministrazione nel 2011 ha però dirottato altrove
quasi tutto il denaro (550000 mila euro): in particolare a favore della ristrutturazione
degli interni di Villa Silvia, a Lizzano, che oggi ospitano una collezione di
strumenti musicali meccanici oltre a cimeli di Giosuè Carducci che della
contessa Silvia Pasolini Zanelli fu ospite per alcune estati nell’ultima parte
della sua vita. Mentre, d’altra parte, l’abbandono e il nevone del 2012 hanno del
tutto ammalorato gli ex-manufatti minerari.
L’assessore riconosce la
potenzialità del sito se non altro come base per accrescere interesse per quella
frazione cesenate. Per esempio Formignano potrebbe diventare l’epicentro di un
sistema di sentieri culturali collinari. Si frappongono però priorità varie e
limiti di bilancio. Una via d’uscita starebbe di ”inserire Formignano nel parco
delle miniere marchigiane”. Che fa capo a Sassoferrato, Ancona. Che con una
cifra simile a quella sfilata a Formignano ha recuperato la Miniera Cabernardi,
coordinandola a Perticara col Parco Museo Minerario delle Miniere di Zolfo
delle Marche. “Anche Magalotti (il massimo studioso e sponsor cesenate del
recupero di questo bene, NdR) è d’accordo…”. È però niente più che un’idea. Soprattutto
considerando che Formignano nel programma del sindaco non è neppure citato.
Addirittura, pur figurando negli anni passati in cima ai desiderata di Carta
Bianca, la graduatoria delle opere pubbliche auspicate dai cesenati, mai è stato
preso in considerazione. Almeno per puntellarlo un po’ in attesa di più fausti
auspici.
Più nette le aspirazioni dell’assessore
riguardanti il Centro Cinema del complesso S. Biagio coi suoi 200-250 mila tra
negativi e stampe di foto di scena: resterà dov’è, egli assicura, in contrasto
rispetto a quanto deliberato dalla precedente amministrazione per decreto della
quale andrà alla Malatestiana. Addirittura Verona auspica “qualche sforzo di
investimento in senso edilizio” (sale comprese) nello storico complesso di via
Aldini. Di più: sul tema Verona sfoggia una cosa di cui nella politica
culturale cesenate si sentiva la mancanza da un po’, cioè una visione. “Vorrei
far crescere il patrimonio perché la fotografia caratterizzasse Cesena
diventando un elemento distintivo, per esempio, rispetto a Rimini e Ravenna”. L’archivio
del Centro Cinema desta già un certo interesse internazionale. Senza dire poi
che Cesena esprime ”una tradizione pittorica, ma anche di fotografi” e c’è un
sacco di materiale storico nella Biblioteca Comandini, sotto alla Malatestiana…
La situazione di partenza, però, non
sembra favorire l’assessore. Pezzi di Centro Cinema sono già alla Malatestiana.
Ci sta nientemeno che il patrimonio, cioè le foto, per quanto, ama
puntualizzare Verona, “nel posto giusto, cioè nei magazzini, non nel
seminterrato” come vorrebbero alcuni critici. E sempre alla Malatestiana sono
già stati ricavati gli spazi destinati alla didattica cinematografica (Schermi
e lavagne) per far posto ai quali, addirittura, una parte dei libri è stata traslocata
altrove, in un magazzino. Ancora alla Malatestiana sarà presto inaugurata la
sala da cinquanta posti in costruzione al servizio di quest’ultima attività,
che è un clone della omonima della Cineteca di Bologna, a cui, a seguito di un
accordo che a Cesena costa 80 mila euro l’anno e risale al 2015, è stata
affidato in regia fino al 2021 il Centro Cinema. La cui videoteca, manco dirlo,
sta già alla Malatestiana da quel 14 dicembre 2013 in cui la nobile istituzione
cesenate riaprì al pubblico tutta nuova. Ci si chiede, insomma, come potrà mai Verona
riavvolgere una matassa così ormai rotolata altrove.
Contro l’operazione risuona, tra
le altre, la bocciatura del solito Casalini, l’assessore che del Centro Cinema gettò
le basi. Il Centro Cinema, egli sottolinea, è la seconda istituzione creata
dalla città per importanza e storia dopo il Corelli (la scuola di musica, nata
due secoli fa). E tuttavia, prima, osserva in sintesi, lo si è indebolito di
risorse umane e sclerotizzato ammazzando la sua dimensione provinciale; poi, spostandone
il centro decisionale a Bologna, se ne è affidato il controllo ad altri,
trasformando Cesena in fatto di cinema “da elaboratrice di proposte a semplice
fruitrice”.
Riguardo invece la Malatestiana Verona
si corregge in relazione a sue dichiarazioni nelle quali annunciava
l’intenzione di nominare al più presto un direttore dotato di una “certa autonomia rispetto
all’assessorato”. Sarà autonomia senza “certa”. Addirittura la vede armata di “carisma”.
Evidentemente però quel “certa” dal sen sfuggito da qualche inquietudine nasce
ed è comprensibile. Se riguardo alla Malatestiana antica Verona auspica solo
una più intensa attività e promozione di “studi, convegnistica e ricerca” collegata
al prezioso patrimonio, sul futuro di quella moderna lo stesso assessore non
può sbilanciarsi più di tanto. “È realizzata solo una parte e
bisogna aspettare il completamento del terzo lotto (sala cinematografica e,
allo stato dell’arte, sede del Centro cinema, NdR) per poi procedere ad un
miglioramento complessivo: la sezione a scaffale aperto va sicuramente rivista
e altre sezioni come per esempio la saletta romagnola non si può escludere che
siano ricostituite. Ma, appunto, il terzo lotto completato ci darà una mano per
capire”.
Frutto di un lavoro quasi
decennale costato finora 8,5 milioni di euro, l’attuale status della
Malatestiana è fortemente influenzato dalla visione biblioteconomica di
Antonella Agnoli che tra il marzo 2013 e il dicembre 2014 ha fornito una
consulenza indirizzata a integrare il gioiello antico, quello dei codici
miniati, col rivisitato fabbricato del contiguo ex-liceo classico, per
trasformare il tutto in una piazza del sapere sul modello di quella
straordinaria istituzione bolognese inaugurata nel 2001 che si chiama
Biblioteca Salaborsa, per cui la stessa Agnoli stilò il pre-progetto. Una
istituzione aperta a tutti e ambiziosamente finalizzata a conquistare tanto più
pubblico possibile: anche quello solitamente avulso dalle sue sale e dai suoi
scaffali. Non però altrettanto riuscita.
Agnoli stessa, del resto, non ricorda con
nostalgia quella sua ormai lontana consulenza terminata con la scenografica
inaugurazione del dicembre 2013: ancora le pungono gli attacchi degli studiosi
adusi alle consultazioni del suo patrimonio storico per le proprie
pubblicazioni, per via dei radicali cambiamenti nel sistema di consultazione e
ricerca, e perfino la non collaborazione, se non contestazione subdola e/o
plateale, del personale interno. “C’erano perfino ex in pensione che soffiavano
sul fuoco” e “eminenze grigie” su cui convergevano malelingue, fomentatori di
discordia, voltafaccia live e/o social. “Un clima non facile (la prima volta
che mi succedeva)”, “una reazione negativa da parte della città”. Che la
professionista, esperta di migliaia di biblioteche nel mondo e responsabile di
tante altre felici metamorfosi simili in Italia, da Pesaro a Cinisello Balsamo
a Fano, ascrive a un coriaceo, sorprendente, inspiegabile rifiuto del nuovo. Nonché
a presunzione. Per non dire di provincialismo.
Quando invece probabilmente si
trattò solo di dilettantismo di amministratori pubblici incapaci di coinvolgere
i portatori d’interesse, di condividere se non a cose fatte un progetto di
radicale metamorfosi riguardante il “patrimonio più prezioso” della città
(parole del sindaco Lucchi e dell’assessora Elena Baredi). I lavori di
ristrutturazione partono grosso modo ai primi del 2000, procedono e, quando il
contenitore è a buon punto (2013), si affida all’esperta la riorganizzazione del
contenuto a misura di terzo millennio. Dopo di che, successivamente ad una
chiusura di sei mesi a partire dal giugno 2013 interrotta solo da un’assemblea
cittadina al Palazzo del Ridotto nell’ottobre dello stesso anno, si toglie il
velo e… voilà l’anatroccolo vintage trasformato in cigno multimediale. Col
risultato che la Biblioteca Malatestiana, nonostante il profluvio di dati sui
frequentatori, resta per la città una ferita aperta. E le lamentele non
tacciono.
Soddisfa probabilmente tanti, forse
sempre di più, ma il cahier de doléances è lungo e riguarda infinite questioni
che vanno dalla maniera promiscua in cui convivono funzioni diverse agli arredi
di dubbia funzionalità, dal personale in buona misura inadeguato alla scomparsa
di funzioni identitarie per studiosi e autori di libri e ricerche sul territori,
da un arredo di improbabile adeguatezza alla inspiegabile eliminazione del
sistema decimale Dewey nella parte a scaffale aperto, che invece a Sala Borsa è
rimasto eccome, insieme ai tavoli e alle sedie, e che insieme a sottrazioni
varie del patrimonio librario immagazzinato altrove invilisce nella sostanza
l’offerta di quella che il sindaco Enzo Lattuca nel suo programma chiama Casa
del Libro. Quando invece che cosa sia nessuno lo può onestamente dire. Buon
lavoro, assessore Verona.
Anche perché oltre a Formignano
tradito, la Malatestiana in alto mare e il Centro Cinema cannibalizzato e
spacchettato ci sono altre situazioni minori per le quali un maggior attivismo
nel senso della qualità e delle idee appare necessario. La politica culturale
del decennio precedente è stata all’insegna dei criteri del domino (sposto
quello che c’è qui e lo metto là che a sua volta ecc.) della esternalizzazione
gestionale e del ricorso a finanziamenti pubblici e privati, ma dal punto di
vista della qualità e anche quantità della produzione culturale i risultati sono
dubbi.
Solo un esempio, i Giardini
Savelli sono stati ristrutturati nel 2011 e saranno gestiti fino 2040 in
project financing, cioè senza soldi pubblici, ma tra aprile e ottobre, quando
diventano la parte più viva dell’estate cesenatese, nonostante il teatrino
rifatto, culturalmente producono poco e solo roba mediocre. “Forse perché
quest’anno –obbietta l’assessore- l’estate culturale si è spostata verso il
Chiostro di San Francesco”. Può darsi, ma allora perché non si è allestito il
chiostro almeno con bagni e spogliatoi decenti per pubblico e artisti. Un bar.
Un contesto, insomma, di vera accoglienza. Dezanzarizzazione inclusa.
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