sabato 12 ottobre 2019

CESENA NEL GARBUGLIO DELLA CULTURA

UNA POLTRONA IMPEGNATIVA: CARLO VERONA, NEO-ASSESSORE CESENATE ALLA CULTURA, DOVRÀ RIMBOCCARSI LE MANICHE PER RESTITUIRE ALLA CULTURA CESENATE UN’IDENTITÀ PERDUTA

di Giuseppe Fabbri

Sarà pure “onorato” dell’incarico Carlo Verona, architetto, neo-assessore alla cultura della giunta cesenate di Enzo Lattuca, ma la situazione della politica culturale della sua città appare alquanto, come egli stesso puntualizza, “ingarbugliata” e avrà da fare. Centro Cinema, Biblioteca Malatestiana, Bonci appaiono nel pieno di metamorfosi dal destino confuso. Oltre che oggetto di critiche. E a ben vedere pure su altre questioni, quali per esempio gli stessi Giardini Savelli, epicentro della mini-movida estiva cesenate ma miseri di proposte culturali, c’è da eccepire. Per non dire dell’area mineraria di Formignano, a Borello, che oggi crolla. Eppure ieri sembrava ad un passo dal recupero.

Forse la questione più facile è rappresentata propria dal Teatro Bonci, il lirico cesenate, il punto in cui le intenzioni programmatiche del sindaco Enzo Lattuca sono più recise riguardo alla voglia di cambiare, in particolare quando afferma che “andranno valutate attentamente modalità alternative di gestione del Teatro Bonci”. Nessun cambiamento, in realtà, si profila rispetto alla ormai diciottenne gestione del Bonci da parte di Emilia Romagna Teatro Fondazione, di cui Cesena fa parte con Bologna, Modena, Vignola e Castelfranco. Come facilmente deducibile dalla commissione consigliare del 4 ottobre 2019 vertente sul cartellone 2019-20 del prestigioso lirico cesenate. Il neodirettore (non proprio, dal gennaio 2017) Claudio Longhi di Ert ha riconosciuto, a seguito di domande di consiglieri in particolare delle minoranze, che l’insoddisfazione annosa da parte degli affezionati per il livello delle proposte non è priva di fondamento. E di essersi pertanto impegnato in un lavoro di “ricucitura e riequilibrio” all’insegna di un criterio di pari trattamento di tutti i teatri della fondazione tanto riguardo alla “qualità” quanto riguardo alla “tipologia” degli spettacoli”, puntualizzando pure che “quando mi sono insediato ammetto che non era così”.
La situazione del Bonci è simile a quella del Centro cinema – osservava appena un mese prima al riguardo Roberto Casalini, ex-assessore cesenate alla cultura tra il 1975 e il 1985 rientrato nel Pd dopo un breve divorzio- perché da quando si è affidato il nostro teatro a Fondazione Emilia Romagna Teatro spendiamo gli stessi soldi per diventare servitori ed essere costretti ad accettare gli spettacoli di Ert, che significa non poter decidere chi far venire qui. L’insoddisfazione diffusa per il Bonci nasce proprio da questo: dalla rigidezza del sistema che ci fa perdere spettacoli straordinari”.
E più o meno negli stessi giorni Franco Dell’Amore, musicologo, autore di pietre miliari della storia musicale romagnola e cesenate, esperto di operetta, varietà, folk, lirica e quant’altro oltre che regista di eventi musicali e non a Cesena e nel mondo raccontava di aver suggerito a Carlo Verona di passaggio per consigli nella sua casa-museo la seguente idea “irrealizzabile a causa della mentalità”: “Cancellare la stagione teatrale proponendo solo 2-3 cose da affidare a figure come la poetessa Mariangela Gualtieri o il regista Romeo Castellucci (due big cesenati nel mondo, NdR) e che siano di respiro internazionale”. Il Bonci è infatti digiuno da anni di grandezza. Pago di riempire la sala e gli abbonamenti. Cambiare strada può significare solo “portare a Cesena poche cose ma importanti, di successo, prime nazionali, che solo il pubblico può portare; il resto, le pièce, il concerto, il balletto, li si lasci organizzare ad altri, ai privati”. Le risorse (umane) a Cesena non mancano. “Devi proporre cose basse e alte, ma non puoi fare cose basse pretendendo che siano alte”.
Ma naturalmente Lattuca e Verona non seguiranno quei consigli e il Bonci resterà in Ert, il primo dei sei teatri nazionali secondo una graduatoria quali-quantitativa da cui dipende la distribuzione del Fus. Come potrebbero dopo gli impegni solenni di Longhi? Senza considerare poi le ragioni di budget (“Il Bonci costa un botto: solo aprirlo, dico le porte, al pubblico se ne vanno 4-5 mila euro” ha detto Longhi accompagnato da un moto di assoluta condivisione dell’assessore). E delle poltrone: chi si figurasse Cesena in balia del potere di Modena (sede di Ert) e attribuisse le ragioni di stagioni teatrali poco brillanti a questa sudditanza, sbaglia, perché dal 2012 al 2016 la presidenza dell’associazione è stata occupata da Daniele Gualdi, ex assessore cesenate dei sindaci Giordano Conte e Paolo Lucchi, silurato nel 2011 da quest’ultimo e risarcito con Ert.
Una vera “nota dolente”, parole dell’assessore, è rappresentata invece dal parco minerario lungo il Savio. L’avvio del suo restauro e della sua valorizzazione in quanto testimonianza dei tempi in cui Cesena e dintorni erano capitale mondiale dello zolfo, era lì, pronto, finanziato. La precedente amministrazione nel 2011 ha però dirottato altrove quasi tutto il denaro (550000 mila euro): in particolare a favore della ristrutturazione degli interni di Villa Silvia, a Lizzano, che oggi ospitano una collezione di strumenti musicali meccanici oltre a cimeli di Giosuè Carducci che della contessa Silvia Pasolini Zanelli fu ospite per alcune estati nell’ultima parte della sua vita. Mentre, d’altra parte, l’abbandono e il nevone del 2012 hanno del tutto ammalorato gli ex-manufatti minerari.
L’assessore riconosce la potenzialità del sito se non altro come base per accrescere interesse per quella frazione cesenate. Per esempio Formignano potrebbe diventare l’epicentro di un sistema di sentieri culturali collinari. Si frappongono però priorità varie e limiti di bilancio. Una via d’uscita starebbe di ”inserire Formignano nel parco delle miniere marchigiane”. Che fa capo a Sassoferrato, Ancona. Che con una cifra simile a quella sfilata a Formignano ha recuperato la Miniera Cabernardi, coordinandola a Perticara col Parco Museo Minerario delle Miniere di Zolfo delle Marche. “Anche Magalotti (il massimo studioso e sponsor cesenate del recupero di questo bene, NdR) è d’accordo…”. È però niente più che un’idea. Soprattutto considerando che Formignano nel programma del sindaco non è neppure citato. Addirittura, pur figurando negli anni passati in cima ai desiderata di Carta Bianca, la graduatoria delle opere pubbliche auspicate dai cesenati, mai è stato preso in considerazione. Almeno per puntellarlo un po’ in attesa di più fausti auspici.
Più nette le aspirazioni dell’assessore riguardanti il Centro Cinema del complesso S. Biagio coi suoi 200-250 mila tra negativi e stampe di foto di scena: resterà dov’è, egli assicura, in contrasto rispetto a quanto deliberato dalla precedente amministrazione per decreto della quale andrà alla Malatestiana. Addirittura Verona auspica “qualche sforzo di investimento in senso edilizio” (sale comprese) nello storico complesso di via Aldini. Di più: sul tema Verona sfoggia una cosa di cui nella politica culturale cesenate si sentiva la mancanza da un po’, cioè una visione. “Vorrei far crescere il patrimonio perché la fotografia caratterizzasse Cesena diventando un elemento distintivo, per esempio, rispetto a Rimini e Ravenna”. L’archivio del Centro Cinema desta già un certo interesse internazionale. Senza dire poi che Cesena esprime ”una tradizione pittorica, ma anche di fotografi” e c’è un sacco di materiale storico nella Biblioteca Comandini, sotto alla Malatestiana…
La situazione di partenza, però, non sembra favorire l’assessore. Pezzi di Centro Cinema sono già alla Malatestiana. Ci sta nientemeno che il patrimonio, cioè le foto, per quanto, ama puntualizzare Verona, “nel posto giusto, cioè nei magazzini, non nel seminterrato” come vorrebbero alcuni critici. E sempre alla Malatestiana sono già stati ricavati gli spazi destinati alla didattica cinematografica (Schermi e lavagne) per far posto ai quali, addirittura, una parte dei libri è stata traslocata altrove, in un magazzino. Ancora alla Malatestiana sarà presto inaugurata la sala da cinquanta posti in costruzione al servizio di quest’ultima attività, che è un clone della omonima della Cineteca di Bologna, a cui, a seguito di un accordo che a Cesena costa 80 mila euro l’anno e risale al 2015, è stata affidato in regia fino al 2021 il Centro Cinema. La cui videoteca, manco dirlo, sta già alla Malatestiana da quel 14 dicembre 2013 in cui la nobile istituzione cesenate riaprì al pubblico tutta nuova. Ci si chiede, insomma, come potrà mai Verona riavvolgere una matassa così ormai rotolata altrove.
Contro l’operazione risuona, tra le altre, la bocciatura del solito Casalini, l’assessore che del Centro Cinema gettò le basi. Il Centro Cinema, egli sottolinea, è la seconda istituzione creata dalla città per importanza e storia dopo il Corelli (la scuola di musica, nata due secoli fa). E tuttavia, prima, osserva in sintesi, lo si è indebolito di risorse umane e sclerotizzato ammazzando la sua dimensione provinciale; poi, spostandone il centro decisionale a Bologna, se ne è affidato il controllo ad altri, trasformando Cesena in fatto di cinema “da elaboratrice di proposte a semplice fruitrice”.
Riguardo invece la Malatestiana Verona si corregge in relazione a sue dichiarazioni nelle quali annunciava l’intenzione di nominare al più presto un direttore dotato di una “certa autonomia rispetto all’assessorato”. Sarà autonomia senza “certa”. Addirittura la vede armata di “carisma”. Evidentemente però quel “certa” dal sen sfuggito da qualche inquietudine nasce ed è comprensibile. Se riguardo alla Malatestiana antica Verona auspica solo una più intensa attività e promozione di “studi, convegnistica e ricerca” collegata al prezioso patrimonio, sul futuro di quella moderna lo stesso assessore non può sbilanciarsi più di tanto. “È realizzata solo una parte e bisogna aspettare il completamento del terzo lotto (sala cinematografica e, allo stato dell’arte, sede del Centro cinema, NdR) per poi procedere ad un miglioramento complessivo: la sezione a scaffale aperto va sicuramente rivista e altre sezioni come per esempio la saletta romagnola non si può escludere che siano ricostituite. Ma, appunto, il terzo lotto completato ci darà una mano per capire”.
Frutto di un lavoro quasi decennale costato finora 8,5 milioni di euro, l’attuale status della Malatestiana è fortemente influenzato dalla visione biblioteconomica di Antonella Agnoli che tra il marzo 2013 e il dicembre 2014 ha fornito una consulenza indirizzata a integrare il gioiello antico, quello dei codici miniati, col rivisitato fabbricato del contiguo ex-liceo classico, per trasformare il tutto in una piazza del sapere sul modello di quella straordinaria istituzione bolognese inaugurata nel 2001 che si chiama Biblioteca Salaborsa, per cui la stessa Agnoli stilò il pre-progetto. Una istituzione aperta a tutti e ambiziosamente finalizzata a conquistare tanto più pubblico possibile: anche quello solitamente avulso dalle sue sale e dai suoi scaffali. Non però altrettanto riuscita. 
Agnoli stessa, del resto, non ricorda con nostalgia quella sua ormai lontana consulenza terminata con la scenografica inaugurazione del dicembre 2013: ancora le pungono gli attacchi degli studiosi adusi alle consultazioni del suo patrimonio storico per le proprie pubblicazioni, per via dei radicali cambiamenti nel sistema di consultazione e ricerca, e perfino la non collaborazione, se non contestazione subdola e/o plateale, del personale interno. “C’erano perfino ex in pensione che soffiavano sul fuoco” e “eminenze grigie” su cui convergevano malelingue, fomentatori di discordia, voltafaccia live e/o social. “Un clima non facile (la prima volta che mi succedeva)”, “una reazione negativa da parte della città”. Che la professionista, esperta di migliaia di biblioteche nel mondo e responsabile di tante altre felici metamorfosi simili in Italia, da Pesaro a Cinisello Balsamo a Fano, ascrive a un coriaceo, sorprendente, inspiegabile rifiuto del nuovo. Nonché a presunzione. Per non dire di provincialismo.
Quando invece probabilmente si trattò solo di dilettantismo di amministratori pubblici incapaci di coinvolgere i portatori d’interesse, di condividere se non a cose fatte un progetto di radicale metamorfosi riguardante il “patrimonio più prezioso” della città (parole del sindaco Lucchi e dell’assessora Elena Baredi). I lavori di ristrutturazione partono grosso modo ai primi del 2000, procedono e, quando il contenitore è a buon punto (2013), si affida all’esperta la riorganizzazione del contenuto a misura di terzo millennio. Dopo di che, successivamente ad una chiusura di sei mesi a partire dal giugno 2013 interrotta solo da un’assemblea cittadina al Palazzo del Ridotto nell’ottobre dello stesso anno, si toglie il velo e… voilà l’anatroccolo vintage trasformato in cigno multimediale. Col risultato che la Biblioteca Malatestiana, nonostante il profluvio di dati sui frequentatori, resta per la città una ferita aperta. E le lamentele non tacciono.
Soddisfa probabilmente tanti, forse sempre di più, ma il cahier de doléances è lungo e riguarda infinite questioni che vanno dalla maniera promiscua in cui convivono funzioni diverse agli arredi di dubbia funzionalità, dal personale in buona misura inadeguato alla scomparsa di funzioni identitarie per studiosi e autori di libri e ricerche sul territori, da un arredo di improbabile adeguatezza alla inspiegabile eliminazione del sistema decimale Dewey nella parte a scaffale aperto, che invece a Sala Borsa è rimasto eccome, insieme ai tavoli e alle sedie, e che insieme a sottrazioni varie del patrimonio librario immagazzinato altrove invilisce nella sostanza l’offerta di quella che il sindaco Enzo Lattuca nel suo programma chiama Casa del Libro. Quando invece che cosa sia nessuno lo può onestamente dire. Buon lavoro, assessore Verona.
Anche perché oltre a Formignano tradito, la Malatestiana in alto mare e il Centro Cinema cannibalizzato e spacchettato ci sono altre situazioni minori per le quali un maggior attivismo nel senso della qualità e delle idee appare necessario. La politica culturale del decennio precedente è stata all’insegna dei criteri del domino (sposto quello che c’è qui e lo metto là che a sua volta ecc.) della esternalizzazione gestionale e del ricorso a finanziamenti pubblici e privati, ma dal punto di vista della qualità e anche quantità della produzione culturale i risultati sono dubbi.

Solo un esempio, i Giardini Savelli sono stati ristrutturati nel 2011 e saranno gestiti fino 2040 in project financing, cioè senza soldi pubblici, ma tra aprile e ottobre, quando diventano la parte più viva dell’estate cesenatese, nonostante il teatrino rifatto, culturalmente producono poco e solo roba mediocre. “Forse perché quest’anno –obbietta l’assessore- l’estate culturale si è spostata verso il Chiostro di San Francesco”. Può darsi, ma allora perché non si è allestito il chiostro almeno con bagni e spogliatoi decenti per pubblico e artisti. Un bar. Un contesto, insomma, di vera accoglienza. Dezanzarizzazione inclusa.

Nessun commento:

Posta un commento