Certo, “mai con questi Cinquestelle”, per quanto una parte della sinistra non intenda scaricarli. Inoltre, una agenda sociale va pensata. “Anche per partite Iva e autonomi...”, ma è sulla formula politica che bisogna lavorare e, pare ovvio, il modello che Bonaccini propone (“da esportare”) è quello emiliano-romagnolo. E non solo perché unisce tutti, da Calenda a Schlein, Renzi incluso, insomma i draghiani di ogni ordine e grado; ma anche perché da Piacenza a Budrio, da Cesenatico a Faenza e Imola in Emilia-Romagna il Partito democratico ha dimostrato che con una “proposta convincente la gente cambia idea”.
Parola di Bonaccini: “per me ha votato anche gente di destra perché mi ha visto come più rassicurante”. Con “le corde giuste” il miracolo di recuperare almeno una parte dei 10 punti di distacco è possibile, perché, ripete in svariate formule, “c’è una destra che potrebbe girare le spalle”.
Rassicurante perché? Ed eccoci così al punto centrale, e nevralgico, della proposta bonacciniana: in sintesi, secondo il presidente la forza di rottura della sinistra sta nei territori, “nelle risorse dei territori”, dove puntualmente (quasi) la sinistra vince per la qualità dei suoi candidati. Qualità che fa la “differenza” e con la quale bisognerà giocarsi la partita “collegio per collegio”.
Il che però implica due presupposti (mica facili, NdA): che il Partito democratico non sia diviso per correnti e che a nessuno dei mostri sacri del partito sia garantito nulla. “Se ci sono dei leader si battano nei territori, non chiedano una situazione sicura”. Facciano come Bonaccini: “Se avessi perso nel 2019 contro Borgonzoni non avevo colpe, ma la mia carriera si sarebbe chiusa lo stesso, perché comunque non avrei potuto fare l’opposizione. Prima delle elezioni avevo a disposizione un seggio in Europa, ma ci abbiamo inviato la vicepresidente Gualmini. Ciascuno di noi deve metterci la faccia, deve rischiare qualcosa...”
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