domenica 29 settembre 2024

IN IL GIARDINO DI ALI, SECONDO ROMANZO DI GIUSEPPE CONTI CALABRESE, UN SUFI EGIZIANO APPRODA A VILLA HECH, IMMAGINARIA RESIDENZA NOBILE SUL LAGO DI COMO, LA CUI PROPRIETARIA É CECILIA RIVA, ULTIMA RAMPOLLA DI UNA DINASTIA DI INDUSTRIALI DELLA SETA. NASCE UNA STORIA D'AMORE IL CUI PRIMO FRUTTO É LA REALIZZAZIONE DI UN GIARDINO ISLAMICO, LUOGO MISTICO DI UN AVVICINAMENTO A DIO CHE ALI MANSOUR, ARCHITETTO E APPASSIONATO IDEALISTA, PERSEGUE IN OGNI ASPETTO DELLA VITA. ANCHE NELL'ANELITO AL DIALOGO INTER-RELIGIOSO COL CRISTIANESIMO E, NELLA TEMPERIE DELLA PRIMAVERA ARABA DEL 2011, AD UN DESTINO DIVERSO PER IL SUO PAESE DALL' AUTORITARISMO E DALL'INGIUSTIZIA

Parliamo di religione musulmana? Di islam? Tutto sommato la cronaca invoglia poco. Ci costringe invece ad allargare il focus sul Allahu Akbar il secondo romanzo di Giuseppe Conti Calabrese, Il giardino di Ali, Castelvecchi, 2024. Dopo il primo ambientato a Milano, il narratore milanese ci conduce infatti all'inizio sulle rive del lago di Como in faccia a Bellagio e in una immaginaria villa Hech, gioiello neorinascimentale e nido lussuoso di Cecilia, ultima rampolla di una dinastia di industriali della seta, e di Riccardo, fascinoso buyer e marito. Da qui però prende il volo nella geografia e nel pensiero. Perché a villa Hech, per traversie varie, ma in fondo proprio perché Allah è grande e in lui sta tutto il bene e il male del mondo, approda Ali Mansour, un sufi. Dall’Egitto.

Non è un migrante. Semmai un profugo. Ali è di ottima famiglia e studi solidi di architettura al Cairo e a Firenze. Mai descritto eppure certamente infuso della bellezza del suo stile e delle sue parole. La sua biografia nasconde un segreto di violenza jihadista, ma un po' perché manzonianamente chiamato un po', anzi molto, grazie alla guida del mentore zio Adel diventa tutto Corano, pace e saggezza. Il suo trasferimento in Italia rientra appunto in questo nuovo percorso. Nel quale però Ali resta a modo suo eversivo. Si sa che i mistici vanno a genio finché pregano e basta. Molto meno se esprimono una qualche non ortodossa visione. Una volta li si bruciava in pubblica piazza.  Ebbene, il sufi Ali Mansour resta uno scompaginatore di carte. Del suo passaggio lascia il segno.

Perché a questo devoto assoluto nell’Unico interessa zero la sanguinosa diatriba sciiti- sunniti. Gli piace il dialogo inter-religioso a 360°.  É un personaggio al tempo stesso semplice e complesso, Ali. Semplice perché in lui qualsiasi lettore potrà riconoscersi come nel protagonista di un romanzo rosa perfino con un po’ di invidia. Complesso perché incarna la fede nel Dio imperscrutabile di Lutero e Maometto, ma anche provvidenziale di frate Cristoforo, militante alla San Paolo, francescana del Cantico delle creature e cristiana nel senso del sacrifico per tutti noi. E dialoga su questi argomenti come in un trattato rinascimentale con Paolo Dall’Oglio (quello vero, quello sparito nel 2013 nel gorgo della jihad e dei crimini di Assad) e Don Antonio, ministri cristiani altrettanto idealisti e altrettanto militanti del buono e del bello in nome di Dio: il primo crociato e agnello sacrificale della pace e del dialogo, il secondo interprete del dubbio, che della fede profonda e contemporanea è sostanza.

E poi Ali crede nelle opere, ovviamente quelle belle. Che sono divine per antonomasia e bisogna farle. Pertanto come un novello Leon Battista Alberti propone alla mecenate Cecilia una città ideale nella proprietà di villa Hech. Un giardino, un giardino islamico, il jannah. Perché Ali il paradiso lo vuole in terra. Perché, dice a Cecilia per buona ventura rimasta vedova di un marito manesco e già innamorata cotta di lui, e chi non lo sarebbe, “Dio è bello e ama la bellezza”. E quel giardino sarà “il sublime e il perfetto compimento del mondo terrestre, dove uomini e ogni altra creatura vivente rivelano finalmente la loro origine divina”.

Non per nulla fungerà poi da crogiuolo di visioni, utopie, speranze e, giù per li rami, affetto reciproco, abbracci, amicizia, amore, ascolto, interscambio di idee, sesso. In un contesto di osmosi delle fedi che non è sincretismo: è condiviso anelito all’assoluto.

Tanto assoluto che Ali affida a questo credo, un credo globale perché privo di steccati e inutili primazie, un credo che un utopista di razza non può oggi non auspicare, perfino il compito di nutrire l'attivismo politico: non verso il fanatismo e la violenza, naturalmente, ma sospinto da quel sacrosanto anelito alla libertà e alla democrazia che i popoli della primavera araba, per non dire del Donna Vita Libertà iraniano, hanno massimamente dimostrato di desiderare senza successo e tanto dolore. 

Perché, certo, la terra non è un paradiso e il romanzo di Calabrese è religione, filosofia, formazione, sentimento, ma anche, tragicamente, storia. La narrazione attraversa un buon quarto di secolo inciampando in Mubarak e nella sua asfissiante autocrazia, nell’11 settembre, nell’autodafé dell’ambulante Mohamed Bouazizi, nell'illusione della primavera araba. E la storia, purtroppo e per fortuna, siamo noi. Non per nulla, tornando alla cronaca, per i sufi d'ogni contrada sta tirando un'aria pessima.

lunedì 23 settembre 2024

LE MALEFATTE, LE ANGHERIE E LA PERFIDIA PERPETRATE AI DANNI DELLA POPOLAZIONE PALESTINESE DELLA CISGIORDANIA DA PARTE DEI COLONI ISRAELIANI E SOSTANZIALMENTE DAL GOVERNO NETANYAHU SONO STATE ILLUSTRATE DOMENICA 22 SETTEMBRE AL CASTELLO DI SORRIVOLI DAL MILITANTE ISRAELIANO GUY BUTAVIA CHE ALL'INTERNO DELL'OPERAZIONE COLOMBA CERCA DI PROTEGGERE PACIFICAMENTE LE VITTIME. I COLONI ISRAELIANI, CON LA COPERTURA DEL GOVERNO, PUNTANO INFATTI ALLA PULIZIA ETNICA. L'INIZIATIVA É DI MEDITERRANEA SAVING HUMANS DI CESENA.

Domenica 22 settembre al Castello di Sorrivoli Guy Butavia, israeliano attivista all’interno dell'impegno militante denominato Operazione Colomba che vorrebbe contrastare pacificamente la pulizia etnica ai danni dei palestinesi della Cisgiordania, ha illustrato con filmati il campionario di angherie e crudeltà utilizzate per questo fine da parte dei coloni israeliani, talvolta militarizzati, e dell'esercito. L'iniziativa è stata promossa dal gruppo cesenate di Mediterranea saving humans.

La Cisgiordania, che i ministri ultra-ortodossi della compagine di Netanyahu chiamano biblicamente Giudea e Samaria, già da tempo sta subendo le malefatte di un'urbanistica, chiamiamolo cosi, che punta ad interrompere la continuità e l’osmosi tra gli insediamenti palestinesi. Ebbene, dopo il 7 ottobre questa frammentazione si è trasformata in chiusure vere e proprie che impediscono agli abitanti dei villaggi di muoversi liberamente per lavoro e anche studio. 

La proprietà privata in Cisgiordania non è inviolabile e ci si può costruire per ebreizzare il territorio. E se protesti e ti difendi dai coloni che ti minacciano con bastoni e armi da fuoco, i soldati, se non stanno solo a guardare o si impegnano soprattutto ad allontanare chi filma, attribuiscono sistematicamente la responsabilità delle colluttazioni e dei diverbi ai palestinesi. Con anche arresti. E pure morti.

Le capre e le piante da frutto vengono avvelenate, le case rase al fuoco dal buldozer, la raccolta delle olive degli uliveti è impedita. E, se ce la fai lo stesso a riempirne un sacco e ti intercettano, il carico viene sequestrato con l’asino. Le minacce, gli attacchi e la distruzione di macchinari agricoli non è frenata da alcuna autorità. Per esempio gli impianti per la fornitura di acqua, quando ce l’hanno, vengono manomessi. 

I coloni, dicevamo, aggrediscono coi bastoni i palestinesi, ma anche i militanti gandhiani che li difendono o filmano rischiano. Anche la vita. E se accade che in un rigurgito di separazione dei poteri la giustizia sentenzi il diritto degli abitanti a tornare alla terra che è stata loro arbitrariamente tolta, non però gli è riconosciuto quello di ricostruire gli edifici nel frattempo abbattuti. 

E che fai a quel punto? Te ne vai? In qualche caso si. Questo appunto si vuole, questo ormai l’establishment al potere sostiene apertamente. 

Quel che fanno i governi di Israele ai danni dei palestinesi della Cisgiordania ricorda molto quanto i fascisti fecero nel '20 e '21 in particolare in Emilia e Romagna per cancellare ogni traccia di movimento socialista contadino. Un mix di violenza, minaccia, prevaricazione condita con il sostegno dell'esercito e la rara, insufficiente e spesso contraddittoria tutela da parte della giustizia mentre il mondo guarda impotente. 

In un paese, Israele, che giustamente può essere definito democratico, ma solo perché prevede libere elezioni. Per il resto, oltre che attraversato da istanze autoritarie e repressive nei confronti del suo stesso popolo, sta procedendo in un lavoro lento e mai interrotto di apartheid e oppressione nei confronti della minoranza che già viveva in quelle terre prima del 1947, prima guerra arabo-israeliana, e prima che la nobiltà del sionismo s’inquinasse di bullismo geopolitico e razzismo. E prima che la politica dei due popoli e due stati diventasse carta straccia.

E fosse sostituita da una politica no non genocida. Il termine usato anche da Guy è fuorviante e presta il fianco a reazioni di sdegno in quanto riconducibile ai forni e ai massacri al tempo stesso sommari e selettivi di Srebrenica. Quella illustrata da Guy è invece a tutto tondo una pulizia etnica (raccontata anche dalle inchieste di Francesca Mannocchi su La Stampa). Che parte da lontano e dopo il  pogrom del 7 ottobre - ha puntualizzato Guy- "ha solo accelerato”. Pure incrudelendosi. 




lunedì 16 settembre 2024

UN SI FESTIVAL 2024 A SAVIGNANO SUL RUBICONE IN LINEA CON LA SUA TRENTENNALE STORIA. UNA RASSEGNA CHE RESTITUISCE INTERROGATIVI PIÙ CHE CELEBRAZIONI. E CI PORTA LA DOVE IL MALE DI VIVERE SI ESPRIME NELLE FORME CONTEMPORANEE VICINE E LONTANE

Quest’anno, trentatreesima edizione, il Si Festival di Savignano al Rubicone ha ritrovato buona parte della sua identità e vocazione: riassegnando alla fotografica il suo ruolo primario oltre che diffuso nella cittadina, restituendo a piazza Borghesi l’epicentro della manifestazione ed anche evitando improbabili commistioni con altri generi, tipo musica. Il rito, nella prima serata, quella di sabato 14 settembre (il festival durerà fino al 29) della fotografa (o insomma quello che era) che affida al fuoco una ad una le foto dell’archivio fotografico del padre ha espresso un momento di particolare significatività di una rassegna che non rincorre affatto certezze, soste, sicurezze.


Tolti gli spazi dedicati ad inediti e altro di Marco Pesaresi, il cui archivio è stato donato dalla famiglia a Savignano, e a Silvia Camporesi, con una mostra antologia, alcune foto dell’alluvione del 2023 comprese, all’interno della chiesa del suffragio, nei vari spazi minimalisti soliti, dalla scuola Giulio Cesare ad complesso del consorzio di bonifica sulla via Emilia, quest’anno, verrebbe da dire più che mai, e in ogni caso come recita la sua storia, il Si Festival ha proposto scatti riconducibili a perdita, marginalità ed emarginazione, underground, divisioni, ricerca, fragilità, notte, solitudine. Il tutto, secondo tradizione, quasi confuso con l’ordinario e il trasandato dei contenitori. Per nulla agevoli neppure nell’accesso e nell’usufruizione.


Non potrebbe essere diversamente, verrebbe da dire. Tanto da presumere inimmaginabile per le foto esposte una location diversa da Savignano: l’ambientazione sembra costituire un continuum delle foto. Guardando fuori dalle finestre del Consorzio di Bonifica potresti facilmente catturare stralci di vita e di paesaggio in perfetta analogia. 


Mentre in piazza andava il rito in versione fotografica dell’uccisione del padre, nella sala Allende, coi genitori presenti, è stata celebrata la figura di Andy Rocchelli, fotoreporter ucciso nel Donbass dagli ucraini nel 2014. Al Si Festival c’era la serie delle sue foto a donne russe con cui il suo obbiettivo ha dialogato per promuoverle nel mondo e riscattare in qualche modo l’insoddosfazione di una vita. Non era un fotografo di guerra, Rocchelli, e l’inchiesta sulla sua  deliberata uccisione sta incontrando ostacoli e reticenze di ogni genere. Un caso simile al Regeni, ma praticamente ignoto.