Ancora la famiglia in scena nel cinema iraniano. Questa famiglia così normale, monogamicamente solida, ovattata nel suo guanciale di affetto, ottime intenzioni, sopportazione all'interno di una società e un potere che parrebbero all'apparenza non riuscire e forse neppure essere intenzionato ad intromettersi nel privato tran tran. E invece non solo lo fa. Addirittura la famiglia iraniana diventa una sorta parafulmine, di scarico a terra, di ammortizzatore della sofferenza di un popolo oppresso dal totalitarismo della repubblica sciita. Regge quanto può, ma se la pressione diventa eccessiva collassa.
Che è quanto avviene in Il seme del fico sacro, di Mohammad Rasoulof, titolo allusivo appunto di questa sorta di asfissia sociale e di avvelenamento dei pozzi delle relazioni più intime che un regime oppressivo e all'occorrenza, come nel caso delle proteste di Donna vita libertà successive all'uccisione della giovane Amini, violento condanna da decenni un popolo. Che, come dice una delle tre donne protagoniste del film, vorrebbe solo godere delle libertà che hanno tutti. E invece è vittima del contrario. E la famiglia, piccolo regno del compromesso e della comunicazione quanto meno civile se non proprio empatica, ne paga le peggiori conseguenze.
Certo, i giovani protestano, le vie di Tehran sono attraversate da manifestazioni, scontri, rappresaglie delle forze dell'ordine con uccisioni, menomazioni e arresti, ma la famiglia composta dal padre, Iman, neo-nominato giudice istruttore, dalla moglie Najmeh e dalle due figlie, la ventunenne Rezvan e l'adolescente Sana, ha tutti i numeri per restarne fuori, anzi aderire in toto alla narrazione del potere. Se non fosse che, direbbe De Gregori, la rivoluzione non si ferma davanti ad un portone.
Entra con le due figlie informate e formate da internet e non dalla tv, con le idee della gioventù universitaria che si ribella, col naturale scontro generazionale figlio di ogni tempo, ma in Iran dopo più di quarant'anni di regime teocratico di più. Entra con la coscienza dei genitori costretti a scegliere tra piegarsi, aderire, addirittura farsi interprete dell'ingiustizia e della repressione oppure ribellarsi. Entra col dramma del padre al bivio tra rispetto dei valori fondamentali quali la giustizia e l'amore paterno e l'adesione al sistema e alla sua indole di sopraffazione
Tutti ingredienti ben congeniati che imprimono al film una forza indubbia sconfinante nel thriller del finale giustamente evocante quello di Shining, ma non incoerente come secondo una certa critica. Crediamo che sia stato condizionato tantissimo dalla volontà del regista, egli stesso perseguitato, di non rinunciare alla speranza.

