venerdì 21 novembre 2025

IL SEME DEL FICO SACRO (2024) Di MOHAMMAD ROSOILOF È L'ENNESIMA STORIA IRANIANA DI UNA FAMIGLIA CHE COLLASSA SOTTO IL PESO DELLA REPRESSIONE. QUANDO CIOÈ LA FATICA DI SISIFO DI UNA MADRE CHE CERCA DI TENERE FUORI DALLA PORTA LA MINACCIA DEL POTERE TOTALITARIO ANCHE CON DOSI MASSICCE DI COMPROMESSO E IPOCRISIA NON BASTA PIÙ. ED ALLORA È TRAGEDIA.

Ancora la famiglia in scena nel cinema iraniano. Questa famiglia così normale, monogamicamente solida, ovattata nel suo guanciale di affetto, ottime intenzioni, sopportazione all'interno di una società e un potere che parrebbero all'apparenza non riuscire e forse neppure essere intenzionato ad intromettersi nel privato tran tran. E invece non solo lo fa. Addirittura la famiglia iraniana diventa una sorta parafulmine, di scarico a terra, di ammortizzatore della sofferenza di un popolo oppresso dal totalitarismo della repubblica sciita. Regge quanto può, ma se la pressione diventa eccessiva collassa.

Che è quanto avviene in Il seme del fico sacro, di Mohammad Rasoulof, titolo allusivo appunto di questa sorta di asfissia sociale e di avvelenamento dei pozzi delle relazioni più intime che un regime oppressivo e all'occorrenza, come nel caso delle proteste di Donna vita libertà successive all'uccisione della giovane Amini, violento condanna da decenni un popolo. Che, come dice una delle tre donne protagoniste del film, vorrebbe solo godere delle libertà che hanno tutti. E invece è vittima del contrario. E la famiglia, piccolo regno  del compromesso e della comunicazione quanto meno civile se non proprio empatica, ne paga le peggiori conseguenze.

Certo, i giovani protestano, le vie di Tehran sono attraversate da manifestazioni, scontri, rappresaglie delle forze dell'ordine con uccisioni, menomazioni e arresti, ma la famiglia composta dal padre, Iman, neo-nominato giudice istruttore, dalla moglie Najmeh e dalle due figlie, la ventunenne Rezvan e l'adolescente Sana, ha tutti i numeri per restarne fuori, anzi aderire in toto alla narrazione del potere. Se non fosse che, direbbe De Gregori, la rivoluzione non si ferma davanti ad un portone. 

Entra con le due figlie informate e formate da internet e non dalla tv,  con le idee della gioventù universitaria che si ribella, col naturale scontro generazionale figlio di ogni tempo, ma in Iran dopo più di quarant'anni di regime teocratico di più. Entra con la coscienza dei genitori costretti a scegliere tra piegarsi, aderire, addirittura farsi interprete dell'ingiustizia e della repressione oppure ribellarsi. Entra col dramma del padre al bivio tra rispetto dei valori fondamentali quali la giustizia e l'amore paterno e l'adesione al sistema e alla sua indole di sopraffazione

Tutti ingredienti ben congeniati che imprimono al film una forza indubbia sconfinante nel thriller del finale giustamente evocante quello di Shining, ma non incoerente come secondo una certa critica. Crediamo che sia stato condizionato tantissimo dalla volontà del regista, egli stesso perseguitato, di non rinunciare alla speranza.

IL RIFIUTO DELLA MATERNITÀ IN AMATA (2025) DELLA GIOVANE PROTAGONISTA, NUNZIA, INTERPRETATA DA TECLA INSOLIA COMPLETA CON MATILDE DI CINQUE SECONDI E MARTA DI TRE CIOTOLE UN TRIS, USCITO NELLE SALE IN QUESTO FINE 2025, DI DONNE NON FACILI. SPIGOLOSE, INCLINI A GESTI ANCHE FUORI DALLE RIGHE. NUNZIA NEGA LA MATERNITÀ, POTREMMO DIRE, A 360°, MARTA SI APRE AGLI ALTRI E ALLA VITA SOLO IN FACCIA ALLA PROPRIA FINE. MATILDE FA COSE UN PO' MATTE PRIMA DI ACCETTARE DI AVERE ANCHE LEI BISOGNO DI AIUTO

TECLA INSOLIA

Il rifiuto della maternità non è un tema nuovo nel cinema. Petites di Julie Lerat-Gersant uscito a Locarno 2022, in Italia con l’aggiunta La vita che vorrei… per te, narra appunto di una adolescente per la quale di fare da madre non ce n’è. È una little one, appunto, col fidanzatino che va sullo skate o robe così. La protagonista di Amata di Elisa Amoruso, la diciannovenne Nunzia (Tecla Insolia) sta sulla stessa linea, ma al cubo e con metodica determinazione. Dal concepimento al suo naturale evolversi fino alla varia foresta di relazioni dentro cui la maternità fiorisce e di cui si nutre. Un mondo, il suo, di una giovane centrata solo su se stessa.

Manco dirlo allontana il giovane partner, probabile padre. Alla madre affettuosamente lontana, nella Sicilia da cui proviene (la storia si svolge a Roma) basta nascondere il fatto e non far vedere la pancia che cresce. Intanto fugge da chi maternamente le tende la mano esibendole solidarietà e offrendole aiuto. E porta la pargola per la città dentro un borsone come una refurtiva provocando pure nello spettatore qualche ansietà sulle sue intenzioni con quel corpicino che piange solo perché ha fame.

Se comunque non voler figli è un sentimento naturale, maschile e femminile, squisitamente cinematografico è invece il trittico datato 2025, certo figlio dei tempi, rappresentato da giovani donne indipendenti ma anche angolose. Insomma, per usare il motto di norma riferito ai maschi, di carattere non facile in quanto... di carattere.

Tale è certamente Nunzia. Ma anche Matilde (Galatea Bellugi), in Cinque secondi di Paolo Virzi, non sfigura. Pure lei col pancione portato come un marsupio, reagisce di brutto sopra le righe con chi, in questo caso paternamente, vorrebbe si desse una regolata. E liquida il giovane padre per una bazzecola. Mentre Marta (Alba Rohrwacher) in Tre ciotole di Isabel Coixet ha addirittura bisogno di apprendere di essere una terminale per diventare un po’ più grata verso la vita e gli altri. Maschi in testa.